7 aprile 2010
La giornata comincia male. Dalla sala dove stiamo facendo colazione vedo un rivoletto d’acqua che scola dal tetto. Sta piovviginando. Lo temevo. Dopo 40 giorni di viaggio senza una vera pioggia, ormai sarà inevitabile.
Dopo mezz’ora invece, quando partiamo, c’è il sole ed il caldo è già “agobiante”.
Usciamo dal garage e dopo nemmeno 100 metri un passante mi avverte che la mia gomma posteriore è a terra. Ma possibile!! Non poteva succedere dentro al garage? No, qui, al semaforo, nel flusso di auto e nell’ora di punta. Riesco tuttavia ad eseguire un’inversione ad U, nonostante sia senso vietato e mi infilo nella strada laterale che avevo appena superato, dove, dicono a Nini, dovrebbe esserci un meccanico. Percorsi meno di 100 m, mi fermo davanti alla bottega di un gommista.
Ci vuole un’ora, ma approfitto anche per sostituire il copertone, ormai liso, con quello che mi sto trascinando dietro da Mendoza (Argentina). Tutta l’operazione diventa spettacolo ed una piccola folla di curiosi si accalca attorno alle moto. Tremiamo all’idea che si operi il saccheggio di cui in molti ci hanno parlato. E invece solo domande. Ogni nuovo arrivato deve sapere e chiede, ma nessuno tocca niente. Passano anche due pattuglie di polizia che uno dei presenti appella col nome di “pajazos” e li definisce “ladrones’. Così va il mondo….
Nessuno di noi due osa spogliarsi della tuta da moto. Nelle tasche teniamo tutte le nostre risorse economiche ed i documenti. Il caldo è torrido ed umido. Grondo sudore. Dal volto mi cadono gocce in continuazione e quando mi piego in avanti per osservare il lavoro, gli occhiali si bagnano. Mi sento indebolito. Nini trova una bottega ed acquista una bibita. Come bevo mi sento inondare dal sudore.
Fortunatamente, prima di partire, ho fatto montare il cavalletto centrale, che non c’era. Ciò nonostante il forte carico sul retrotreno rischia di far cadere la moto. Il giovane meccanico monta a modo suo la ruota che devo far regolare più volte per averla finalmente posizionata correttamente.
Alla frontiera le formalità sono sempre le stesse. La dogana dell’Equador si trova a 10 km dal confine e la cosa ci sembra così strana che ci fermiamo varie volte per chiedere informazioni, temendo di aver capito male. Tutto procede bene ma, tra le carte del Perù e quelle dell’Equador, se ne va un’altra oretta.
Sono le undici e mezza quando finalmente iniziamo il nostro viaggio nel nuovo Paese. L’Equador non ha una sua moneta e qui utilizzano il dollaro americano. Il resto però ce lo danno con monete equadoregne. Non hanno esercito, però è pieno di militari.
Il paesaggio appare totalmente diverso. Il verde è di un’intensità mai vista. Ogni metro di terreno è ricoperto da vegetazione. La novità, dopo migliaia di chilometri di incolto o rare coltivazioni, sono le piantagioni. Banane, mango, papaie, avocado, canna da zucchero, riso, mais, frumento, ananas e palme da cocco. Qui c’è tutto ma in quantità e qualità mai vista. I bananeti ricoprono la maggior parte della superficie. Sono di estensione tale che per rendere l’idea si dovrebbe immaginare di percorrere l’autostrada da Venezia a Milano immersi nei banani sui due lati, senza soluzione di continuità e per altrettanta profondità. Le piante sono rigogliose, alte 4/5 metri, densissime e cariche di caschi in maturazione. E quando termina il bananeto, iniziano a vedersi le piante di papaia e mango. E così via, all’infinito. percorriamo centinaia di chilometri e non arriviamo mai.
Alcune aree sono acquitrinose e sui canali sorgono capanne su palafitte. Nell’acqua torbida e coperta da rifiuti di plastica, i bambini giocano, gli adulti si bagnano, le donne lavano il bucato. La strada è buona ma il traffico è impossibile. A differenza degli altri Paesi nei quali il traffico, ancorchè intenso e congestionato, si limitava ai centri urbani, qui non c’è differenza. I camion e le corriere sono una fila continua. I paesi sono uno dopo l’altro e nei centri abitati la congestione è tale che la nostra media scade a livelli bassissimi.
Come già in Perù, qui nessuno sa quanti chilometri manchino a questa o quella destinazione. Le distanze si esprimono in ore, o giorni. E non sbagliano. Nonostante il nostro scetticismo, quando ci dicevano che per arrivare a Quito sarebbero state necessarie 12 ore (550 km), non sbagliavano. Qui i chilometri si dilatano. Il tempo scorre inesorabile e non si arriva mai.
I cartelli stradali riportano solo i nomi dei paesi più prossimi, che non sono segnati in carta e bisogna chiedere più volte.
Ci fermiamo solo per dissetarci e rifornire le moto. A singhiozzo piove. Non ce la sentiamo di indossare la tuta da pioggia. Il caldo è soffocante e preferiamo continuare così.
Comincia l’imbrunire e siamo ancora distanti 200 km. 5 ore, ci dicono. Sorridiamo. Per noi sono 2, al massimo 3.
E piove. La strada peggiora ed iniziano ad esserci buche sulla carreggiata. La luce cala, i fari ancora non illuminano a sufficienza, la pioggia sulla visiera rende difficile la visibilità. Cominciano i problemi. Da più di un’ora si è accodata a noi una moto e percorriamo assieme un centinaio di chilometri. Ad un certo punto la difficoltà di avanzare è tale che preferisco fermarmi ad un distributore. Nini si accosta. Anche lui ha difficoltà a vedere la strada. Il tizio dietro a noi si avvicina. Parliamo. Anche per lui la visibilità è nulla. Ha una Honda stradale 600 cc. É un poliziotto fuori servizio, si chiama Alexander. Lo invitiamo a bere qualcosa.
Riusciamo a telefonare all’hotel che avevo prenotato via internet a Quito, per informare del nostro ritardo. L’amico poliziotto ci dice che la strada per Quito è ancora lunga. Ormai è buio pesto. Ripartiamo. Non si vede nulla. L’asfalto è nero e senza alcun segno di riferimento. Ci sono le buche, i dossi rallentatori sono frequestissimi, alti e quasi invisibili, il traffico bestiale. Sono titubante e Nini mi sorpassa. Quando mi giunge a lato, lo vedo sbandare paurosamente. Non so come, rimane in piedi (il poliziotto ci dirà poi che era finito su un gradino causato da lavori in corso che non avevamo visto).
Il quarto d’ora successivo rimarrà tra i miei ricordi più drammatici. Impossibile fermarsi, la strada non ha bordi, nè linea centrale. Piove e la visiera è diventata inutile, anzi impedisce la visuale e la devo alzare. Gli occhiali si riempiono di goccioline. É fatta, sono praticamente accecato.
Avanzo seguendo le luci davanti a me e con le mani serrate sulle manopole in attesa dei colpi delle buche. Dietro a me il poliziotto, con il suo faro, mi sta abbagliando. Vorrei fermarmi ma non posso. In qualche moto arriviamo al paese di cui ci aveva parlato Alexander. Lui lo conosce bene. Passa davanti e ci fa segno di seguirlo. Dopo un attimo ci troviamo tutti e tre su uno spartitraffico in centro strada!!!
Io non ne posso più, affianco Nini e gli urlo che ci dobbiamo fermare qui, che proseguire in queste condizioni sarebbe suicidio. Nini condivide e a sua volta chiede all’amico che ci trovi una sistemazione per la notte, sul posto.
Tutto si svolge in pochi istanti, approfittando dei rallentamenti del traffico causati dai dissuasori a terra. Ci fermiamo ad un incrocio, a centro strada. Nini posa il piede a terra e………..non trova appoggio. La moto si corica su un lato. Il tempo per fermare la mia e scendere ed il traffico sta sopraggiungendo. Siamo in centro strada e non ci sono luci. In pochi istanti, in tre, riusciamo a raddrizzarla. É andata bene.
Ci facciamo guidare fino al primo hotel e qui ci fermiamo per la notte. Mancano ancora 120 km per Quito. Li faremo domani. Per ora piove ancora………..
Download itinerario del 7 aprile 2010 >> (per visualizzare il tour è necessario Google Earth)