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11 aprile 2010

Il trasferimento di oggi, 550 km da Cali a Santa Fe di Bogotà, capitale della Colombia (2600 metri slm), ci ha visti partire sotto un cielo plumbeo ed una leggera pioggerellina che ci ha accompagnato per molte ore tra le campagne dei fondovalle e nell’arrampicata fino al passo più alto della Colombia, a 3250 metri di quota.

É piovuto per tutta la notte e stamattina alle sei, quando ho sbirciato dalla finestra del quattordicesimo piano della torre che ospita l’hotel di Cali, la città si stava svegliando sotto un acquazzone tropicale.
Speravo che con il passare delle ore il sole riuscisse a penetrare la coltre di nubi ma alle 9 abbiamo deciso di partire comunque. Sopra agli indumenti ancora umidi ed agli stivali decisamente bagnati, abbiamo indossato la tuta impermeabile. I movimenti legati e le sagome gonfiate da tanti strati, ci fanno apparire come degli astronauti.

Il tempo di scendere nella hall, pagare il conto e caricare le moto e siamo già in pressione. Io comincio a grondare sudore e non vedo l’ora di uscire all’aperto per respirare dell’aria fresca.
Per fortuna è domenica e il traffico sembra ridotto. La città è grande e le indicazioni mancano. Seguiamo un po’ l’istinto (non si vede nemmeno un raggio di sole) e ci dirigiamo verso nord.
I conducenti dei bus privati che sostituiscono il servizio pubblico sono dei veri pirati della strada e bisogna evitare di averli attorno. Non si curano di nessuno e  tagliano la strada o stringono senza preavviso e senza frecce. Se lungo la via un potenziale passeggero alza il braccio, loro accostano all’istante, senza curarsi di chi si trova nel mezzo. Nelle file ai semafori si affiancano fino a sfiorarti e con l’ingombro delle nostre borse laterali c’è di che preoccuparsi. Nemmeno appare la luce verde del semaforo che già tutti suonano all’impazzata e scattano avanti come fosse una partenza di GP. Se poi piove e le strade sono allagate, le auto possono spostarsi improvvisamente su un lato per evitare una pozzanghera e ti costringono a brusche frenate.

Nonostante sia caldo, la visiera si appanna. Probabimente la nostra temperatura corporea raggiunge livelli da forno ed il nostro alito si condensa all’istante sul plexiglas. É una pena. Abbiamo sperimentato la patata, come antiappannante e devo dire che per una buona mezz’ora ha dato ottimi risultati.

Fuori da Cali, la campagna è suddivisa in piantagioni di canna da zucchero, coltivazioni di cereali ed aree destinate alle piante da frutto. Filari di alberi di papaia carichi di frutti si susseguono per lunghi tratti. Piove sempre e ormai siamo bagnati fuori e dentro la tuta.

Dopo un paio d’ore di pianura iniziamo a salire. La temperatura scende con la quota, la pioggia si intensifica ed inizia la nebbia. In prossimità del passo, a 3250 metri, entriamo nelle nubi e la visibilità scende a meno di 20 metri. Sento il rumore della marmitta della KTM, davanti a me, ma non la vedo.
La strada è viscida ed i tornanti li dobbiamo affrontare in prima, con la gamba tesa e pronta ad intervenire in caso di scivolata. Fa freddo e le mani sono la parte più esposta.
Quando inizia la discesa torna anche la visibilità e dopo un’ora si comincia a sentire qualche ventata di calore che sale dalla valle sottostante. Il panorama è suggestivo, le pendici dei monti sono lavorate a terrazze fino nelle parti più alte e le tonalità di verde ci sono tutte.

L’unica strada è percorsa da ogni genere di veicolo ma si incontrano spesso carovane di cavalli carichi di merci. Fuori dalla strada sono l’unico mezzo di locomozione possibile. Nessun fuoristrada riuscirebbe a percorrere gli stretti sentieri che si inerpicano tra i monti. Ogni ponte su cui transitiamo è presidiato da militari armati e cosi i paesi, sia prima che dopo.
Mi par di rivedere le scene tipiche di molti film americani girati sul tema della droga e dei sequestri operati dai guerriglieri. Quando passimo i militari ci salutano alzando il pollice. Sono tutti giovanissimi.

Ci fermiamo solo per rifornire e purtroppo la macchina fotografica è nella borsa, sotto alla protezione impermeabile e così scatto poche foto, anche se non mancano certamente le occasioni. Ai lati della strada ci sono spesso i banchi dei venditori di frutta che espongono in bella mostra ogni ben di Dio. Anche negli altri paesi del sudamerica se ne vedevano ma avevano poche cose e poco invitanti. Qui l’esposizione è curata e la frutta si presenta bene, pulita e sana.
Ci fermiamo ed in pochi minuti riusciamo ad assaporate una mezza dozzina di banane, dei mandarini ed un ananas delizioso, tagliato al momento ed affettato in rotelle da 4 centimetri di spessore. Il tutto per l’equivalente di 2 dollari. Questo è il nostro pranzo di oggi.
Chiacchieriamo a lungo con i venditori che si affollano attorno a noi, curiosi. La loro principale preoccupazione, come del resto quella di tutti i colombiani con cui abbiamo parlato, è di conoscere la nostra opinione sul loro paese, sulla gente. Quando partiamo, dopo le fotografie di gruppo, si sbracciano per salutarci ed augurarci ogni fortuna.

L’ultima parte di strada scorre veloce ed arriviamo alla periferia di Bogotà all’imbrunire. Negli ultimi 100 km, approfittando di un bel cielo terso, ci eravamo tolti la tuta da pioggia per tentare di far asciugare quanto sta sotto.
Ora però ricomincia a piovere. Ci buttiamo nel traffico e cerchiamo disperatamente un hotel per più di un’ora, intrappolati dal flusso che ci trascina con sè.
Finalmente riusciamo a vedere alcune insegne e con mille difficoltà, percorrendo anche dei sensi vietati, riusciamo ad arrivare ad un alberso. Anche per questa notte riusciremo ad evitare di dormire sotto ad un ponte.


Download itinerario del 11 aprile 2010 >> (per visualizzare il tour è necessario Google Earth)


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