2 giugno 2010
Stamattina, prima ancora di aprire gli occhi, ho teso le orecchie per capire se il rumore di fondo che sentivo provenisse da una doccia del piano di sopra o della pioggia sulla tettoia sotto alla finestra. Valida la seconda!!! Mi sono girato dall’altra parte ed ho proseguito da dove avevo interrotto. Dopo un’oretta, ancora steso, ho cominciato a sentire il letto vibrare. Il treno era passato da poco ed era ormai lontano. Nella stanza a fianco non mi pareva ci fosse qualcuno. Non si poteva trattare che di un terremoto e bello lungo anche. Beh, io di alzarmi non ne avevo proprio voglia e così sono rimasto steso, a contare i secondi di durata della scossa. Una ventina direi, forse di più. Su internet ho trovato questo interessante articoletto: “Each year, seismologists with the Geological Survey of Canada record and locate more than 1000 earthquakes in western Canada. The Pacific Coast is the most earthquake-prone region of Canada. In the offshore region to the west of Vancouver Island, more than 100 earthquakes of magnitude 5 or greater (large enough to cause damage had they been closer to land) have occurred during the past 70 years”.
Continua a piovere forte e così approfitto per studiare la cartina e pensare a dove potrei arrivare in giornata. Verso le undici la pioggia diventa pioggerellina e così approfitto per caricare la moto. Posiziono le sacche morbide all’interno delle valige di alluminio, carico la borsa sul serbatoio e scarico gli stivali di gomma che oggi mi serviranno di sicuro.
Salgo in camera per vestirmi e la pioggia ricomincia a cadere con maggior forza. Che fare? Alle undici devo lasciare libera la stanza e fuori piove. Mi vesto ma indosso solo la parte bassa della tuta impermeabile e gli stivali. Tengo la finestra aperta per avere un po’ di aria fresca ma già inizio a sudare. Mi sposto nella Hall e aspetto. Fa caldo e sento le gocce di sudore che mi scendono lungo il collo. Esco all’aria aperta e mi sembra di stare meglio. Finchè son li, indeciso se vestirmi o meno, osservo il bidone della spazzatura che sta a lato dell’ingresso. Pur essendo in centro del paese, anche questo ha il dispositivo di chiusura anti orso. Per evitare che gli orsi che di notte dovessero scendere in paese in cerca di cibo riescano ad aprire il bidone, lo hanno dotato di una chiusura particolare, azionabile solo mediante l’introduzione di una mano in un’apposita tasca. Il bidone è inoltre dotato di una solida zavorra di base in calcestruzzo.
Decido di completare la vestizione. La manovra è complessa, la tuta è stretta e la traspirazione aumenta. Quando son pronto e salgo in moto, la pioggia termina. Non mi manca molta benzina nel serbatoio ma decido di fare il pieno. Da queste parti ci possono essere anche cento kilometri senza possibilità di rifornire. Appena esco dal paese ed imbocco nuovamente la 99 north, ecco infatti un avviso: “Check your fuel, no gas ahead for 97 km”.
Qui si è tornati a ragionare in kilometri e in litri. Tutto torna ad essere più semplice. Sarà una stupidaggine ma mi dà come l’impressione di essere più vicino a casa.
La strada parte stretta e tutta curve. Si arrampica verso la montagna e con pochi tornanti mi porta sulla neve. Il termometro che ho montato dietro al parabrezza scende costantemente. Sono ben vestito e non sento il freddo. La foresta che sto attraversando è di una bellezza rara. Sul lato della strada scorre un torrente impetuoso e l’acqua spumeggia saltando tra le rapide. Poi la valle si apre ed il torrente sfocia in un lago, intorbidendone l’acqua per un buon tratto. Più avanti, dove la superficie riflette le cime dei monti, l’acqua torna ad essere smeraldina. Si sente l’odore della legna tagliata di fresco, un odore d’altri tempi che mi riporta sulle montagne di casa, nella stagione del taglio, quando andavo con mio padre a prendere la razione per l’inverno, concessa in osservanza degli Usi Civici locali. Tante famiglie sparse nel bosco e si udivano i colpi di accetta, i motori delle seghe ed i canti allegri delle donne. Poi, verso mezzodì, col profumo di legna bruciata si levava quello della carne messa a rosolare sui fuochi. E per un po’ il bosco taceva.
Le valli che sto attraversando sono deserte e per ben due volte rallento e poi mi fermo davanti ad alcuni cerbiatti che passeggiano tranquilli sull’asfalto. Camion non ce ne sono, come del resto non ne ho mai visti da quando ho lasciato le regioni del centroamerica. In un solo giorno, in Equador, ho visto più camion che nell’ultimo mese, qui negli States ed in Canada. Certo le ferrovie ci sono ma non mi sono sembrate nè tante, nè affollate di traffico. In compenso, se mancano i camion, ci sono i camper. Anzi, il traffico è quasi essenzialmente composto da camper ed il 90% sono a nolo e di questi quasi tutti portano le insegne della stessa società di noleggio. Anche gli spazi adibiti a campeggio sono ovunque ed occupano le posizioni più belle.
La pioggia mi ha fatto un regalo. Mi ha seguito con discrezione, facendomi solo una doccetta leggera di tanto in tanto ma allontanandosi quando doveva scaricarsi con forza. Molte volte l’ho vista cadere davanti a me, da nuvoloni congesti, neri, neri, ma poi se ne è sempre andata altrove, lasciandomi passare indenne. E così per tutto il giorno.
Sto seguendo la vecchia traccia dei cercatori d’oro ed i nomi dei paesi portano nomi storici e tipici dell’epoca. C’è “Home 75 miles”, “Home 100 miles” e così via, a ricordare punti di sosta e ristoro per coloro che transitavano esausti sotto il carico dell’attrezzatura tipica del cercatore, lungo un percorso che molti non avrebbero più rivisto. Una folle avventura per molti, una fortuna per pochi. L’economia americana languiva a quel tempo, cercando di risollevarsi dalla crisi del 1890 che aveva portato al fallimento numerose banche e causato una forte recessione. Le ulteriori crisi del 1893 e 1896, avevano ridotto sul lastrico numerose famiglie e mai si era registrato un così alto tasso di disoccupazione. Ecco perchè la notizia della scoperta dell’oro al nord trovò così ampia risposta tra le folle di disperati.
La frenetica Corsa all’oro ne portò decine di migliaia sulle rive del fiume Klondike, nello Yukon, dove nacquero città divenute poi famose e rimaste nella memoria di tutti, grazie ai libri di Jack London, che partecipò di persona alla corsa ed ai numerosi film western sul tema. Da Dawson City transitarono in quel periodo più di 400 tonnellate del lucido metallo.
Ebbene, lungo la 99 North, ogni pochi chilometri una tabella ricorda che si sta seguendo il “Gold Rush Trail” e la tabella riporta il disegno stilizzato di un cercatore con il suo mulo carico di attrezzi. E non dev’essere stata una marcia facile. Lunghissima, attraverso terre inesplorate ed ostili, con interminabili stagioni di freddo intenso e metri di neve ed i pellerossa non sempre disposti ad accettare il passaggio delle carovane.
Oggi ho attraversato numerose riserve indiane. I villaggi sono poveri e molte case sono costituite da semplici carovane in metallo. Nelle cittadine ho visto invece delle belle costruzioni denominate “Tribes Councils” e sono le strutture dove si radunano i capi tribù che costituiscono l’organo di governo per vari gruppi della medesima etnia e/o lingua. Sono pochi tuttavia e generalmente non si vedono in città, non si vedono nei negozi, non ne ho visti lavorare come commessi o impiegati o operai in nessuna delle situazioni che mi hanno portato a contatto con la realtà produttiva del paese. Ma credo che al di fuori delle poche strade e dei piccoli paesi, là fuori, sui monti e lungo i fiumi, siano ancora loro i signori della terra………….
Mappa della distribuzione delle tribù di indiani nativi in British Columbia
Download itinerario del 2 giugno 2010 >> (per visualizzare il tour è necessario Google Earth)
1 giugno 2010
Sembrerebbe una buona giornata per riprendere il viaggio. Il cielo è grigio ma è una copertura chiara, spero che non peggiori.
La freeway è intasata dal traffico che scorre lento sulle 5 corsie. Seattle mi sfila sui due lati e lentamente esco verso nord, attraversando l’ultimo ponte.
Le case di periferia mi accompagnano ancora per alcune decine di chilometri e poi rimane solo la campagna. Il limite di velocità, per la prima volta da quando sono arrivato negli USA, è di 70 miglia/h.
Ho perso un paio d’ore per cercare un litro d’olio motore della gradazione che mi serve, da aggiungere all’attuale scorta. Meglio evitare di trovarsi in difficoltà nelle terre dove i centri abitati cominceranno a scarseggiare e saranno comunque di piccole dimensioni.
La distanza tra Seattle ed il confine è relativamente breve, sono solo 200 km. Li percorro rapidamente e alle 2 pm mi trovo in coda al confine. Dopo mezz’oretta sono davanti al doganiere canadese. Ma la frontiera USA? Io non l’ho vista. Poche formali domande: “Hai armi? Hai droga?” – “No e no!” – “Allora ok, puoi andare.”
Sono in Canada. Attraverso Vancouver che dista una cinquantina di kilometri ma il GPS non dispone della mappa e le due carte stradali non hanno abbastanza dettaglio. Un po’ giro, un po’ mi perdo, poi chiedo e sono fortunato. Imbocco quasi subito la strada giusta e pian piano mi allontano dalla cittò. Ho visto poco, ma quel che ho visto mi è piaciuto. É un’altra città sull’acqua, come Seattle. Ci sono porticcioli e barche ormeggiate ovunque. Il centro cittadino non ha un traffico convulso ed è molto pulito.
Riesco ad imboccare la highway 99 che mi trasporta rapidamente verso nord, costeggiando un braccio di mare che si insinua profondamente tra le montagne ancora bianche di neve. Gli scorci che riesco a cogliere sono di rara bellezza. Sembra un posto incantato. Boschi, neve e mare, tutto assieme. Procedo per altri 200 km dopo il confine e poi comincia ad imbrunire ed a fare freddo. Mi fermo per la notte in un hotel di un paesino di cui non ricordo nemmeno il nome. Il gestore è un indiano, di quelli con il turbante.
Il tempo mi ha dato una mano e la giornata è trascorsa senza una goccia di pioggia. Ora sono le 9 di sera e sto uscendo dal ristorante. Piove e sulle montagne che incombono sul paese le nubi sono basse. Non mi stupirei se lì stesse nevicando.
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31 maggio 2010
……………fine dell’intervallo. Ora pioggia o no, parto. Ieri sera ho cucito sulla giacca l’ultima bandiera, quella del Canada. E con questa sono ben 14, per altrettanti stati (o confederazioni di stati) attraversati in questi tre mesi. Un totale ad oggi di 28.000 km, percorsi su 3 copertoni anteriori e 4 posteriori. Pioggia, vento, caldo e freddo nei limiti. Ora spero che la fortuna mi segua e che anche l’ultima tappa si svolga in un clima abbordabile.
Ho perso dei giorni, in questo ultimo periodo, ma mi serviva comunque attendere l’inizio di giugno per garantirmi l’assenza di neve ed una temperatura accettabile. Da Seattle oggi si vedevano in lontananza le cime ancora imbiancate delle montagne.
La meteo di oggi annunciava acquazzoni ed è invece uscito il sole. Per domani promette uno spiraglio di buono, con solo un 20% di probabilità di pioggia. Crediamoci……….
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30 maggio 2010
Oggi ho girato per Seattle ed ho osservato la gente. É domenica ma quasi tutti i negozi sono aperti. Pioviggina e fa freddo ma la gente cammina e corre nei parchi, le biciclette girano e molte barche bordeggiano sui laghi.
L’umanità qui è addobbata in maniera variegata e variopinta ma nessuno si fa specie di nessuno. Vecchi hippyes e nuovi tatuati si mescolano con allegre vecchiette secche e giganti panciuti. Il numero di persone in carrozzella è insolito, per un europeo. Qui si muovono tutti, in qualsiasi condizione fisica si trovino, anche con la bombola dell’ossigeno nello zaino. Le barriere architettoniche sono state abolite e la circolazione non presenta difficoltà, come invece avverrebbe da noi.
Nel centro città si circola bene ed i parcheggi, carissimi, sono ovunque. Non ho visto molta polizia sulle strade ma il traffico è disciplinato e la città pulitissima. Ho notato un contrasto enorme tra la necessità di pagare anticipatamente la benzina in tutti i distributori e l’assoluta libertà di movimento all’interno dei centri commerciali, dove ci sposta tra i vari reparti con la merce, senza nessun apparente controllo.
Ho attraversato quartieri residenziali con ville bellissime e splendidi giardini. Se non fosse per il clima, definirei Seattle una tra le città più vivibili che io abbia finora visitato.
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