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12 maggio 2010

Non avevo ipotizzato di passare per Las Vegas, pensavo di girare direttamente dalla freeway 15 verso la Death Valley ma proprio a dimostrare come il mio programma di viaggio non sia preordinato ma si sviluppi lungo il cammino, giorno per giorno, quando sono arrivato al bivio di Baker ho tirato dritto. Las Vegas a quel punto distava poco più di un centinaio di kilometri. L’autostrada ti ci porta in un attimo e nella città si circola abbastanza bene. Tutto sommato penso di aver preso una buona decisione.
Ho trovato un’ottima suite in un buon hotel, 100 metri quadrati con 2 super letti king size, divani e poltrone, cucina completa e vista sui grattaceli della strip. Quanto ho speso? 26 dollari!! Cooooosì mi piace!
La cosa più buffa mi è capitata dopo aver posteggiato la moto nel parcheggio retrostante il Casinò. Ho chiesto ad un inserviente da dove sarei potuto passare per non fare tutto il giro del fabbricato. “Ma passa attraverso la sala del casinò”, mi ha risposto. “Ma come”, ho detto, “conciato così”? Si è messo a ridere. Poi ho capito. Probabilmente ero il più elegante tra l’umanità di giocatori presenti. Che bel carnevale!!
Ora mi son fatto una bella e meritata doccia e me ne andrò un po’ a spasso ad osservare questo mondo perverso, dedito al vizio. A più tardi allora………….


Eccomi di ritorno. Bella e sorprendente. La pazzia di Las Vegas è contagiosa. É un grande luna park per adulti, è estrema in ogni sua manifestazione. Bisognava vederla. Ho anche approfittato per farmi rimborsare la deviazione dal “signor” Bellagio. Mi sono accontentato delle spese e poco più. Ho camminato tanto, tra la Roma antica del “Caesar Palace” e le calli veneziane del “Venetian”, che ormai non sento più le gambe. Mamma mia quanti soldi scorrono tra quei tavoli, e quanta gente strana si incontra.

Ora ho soddisfatto la mia curiosità ed accontentato sicuramente anche coloro che non avrebbero compreso una mia mancata visita a questo santuario del gioco d’azzardo e così domani riprenderò il cammino verso Nord, passando per la Death Valley.

Purtroppo mi è giunta notizia che Yosemity è chiuso per neve. Chissà, magari si scioglie nei prossimi due giorni e riesco a visitarlo.


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11 maggio 2010: welcome to USA!

Eccomi negli USA. Benchè negli ultimi 100 km le caratteristiche ambientali avessero già cominciato ad assumere aspetti più gradevolmente ordinati, la differenza che si nota appena oltre la frontiera di Tijuana è lampante. Siamo in un altro mondo, sotto tutti i punti di vista.
É sempre difficile comprendere come due paesi confinanti i cui popoli, almeno nelle aree di confine, hanno necessariamente radici comuni o genetiche o storico/culturali, riescano ad essere così differenti tra loro in ambito sociale ed organizzativo. Avevamo da noi un esempio evidente nell’allora Yugoslavia (ed in tutto il blocco filosovietico), ma in quel caso le ragioni politiche erano evidenti. Qui ci troviamo di fronte a paesi potenzialmente liberi e democratici eppure il disallineamento è tale da stupire. Diventa pertanto evidente come possa diventare determinante l’educazione che una società riesce a dare ai propri cittadini che non sono potenzialmente più colti, più buoni o più intelligenti. E l’educazione si basa sulla serietà delle istituzioni, sul buon governo e soprattutto sulla rapidità e certezza della giustizia. Cosa peraltro di cui avremmo bisogno anche a casa nostra.
Non nego che, entratovi con molte aspettative, forse troppe, oggi non vedevo l’ora di lasciare il Messico. Per questo paese, per i suoi miti, le sue leggende, provavo una grande simpatia.
Pensavo al Messico e davanti agli occhi mi compariva l’immagine clichè del campesino addormentato sotto al sombrero, appoggiato alla casupola bianca di calce. L’immagine di una persona buona, povera ed indifesa. Rivedevo le tante versioni dei film del leggentario Zorro che difendeva i poveri dai soprusi dei ricchi. Ripercorrevo mentalmente le storiche vicende rivoluzionarie di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, ribelli anelanti giustizia e libertà per il loro popolo. Pensavo alla lotta clandestina che ancora scuote questo paese, ai generali, al subcomandante Marcos, con un senso di inevitabile simpatia. Sempre, a torto o a ragione, si tende a parteggiare per la parte che appare più debole, che viene sopraffatta dal potere. Oggi molte di queste immagini mi appaiono sbiadite ed un po’ me ne dispiaccio. É la reazione inconscia a seguito di una delusione e spero sinceramente di potermi ricredere in futuro. Non c’è dubbio che valga la pena visitarlo, ma sicuramente le potenzialità sarebbero più alte, come lo erano le mie aspettative.

Tornando al viaggio………
Ancora ad Ensenada, questa mattina, mi ero attivato per stipulare una polizza assicurativa per la motocicletta. Mi avevano assicurato che ci sarebbero state molte agenzie disponibili, in prossimità della frontiera, ma per evitare di trovarmi in difficoltà all’ultimo momento, mi era parso saggio anticipare i tempi. L’impiegata della prima agenzia cui mi ero rivolto mi aveva chiesto i dati ma quando aveva capito che si trattava di una moto, si era dichiarata impossibilitata a rilasciare una polizza. Mi aveva consigliato di rivolgermi ad una banca. Anche questo tentativo era fallito. La banca non emetteva polizze temporanee per veicoli immatricolati fuori dal territorio statale. Avevo pertanto deciso di proseguire per avvicinarmi alla frontiera.

Giunto a Tijuana, passato un ponte, mi sono trovato fermo, in fila ad un semaforo. Ho tentato di avanzare tra le auto ma gli spazi erano tutti occupati da venditori ambulanti e postulanti di ogni tipo. Dopo un quarto d’ora di attesa, percorse poche decine di metri, mi sono reso conto di essermi incanalato nella coda che porta alle barriere doganali del confine di stato. Bene e male, mi son detto, non sono riuscito a stipulare la polizza in città, però sono già prossimo alla frontiera e lì troverò sicuramente un’agenzia specializzata.
Tra mille manovre riesco ad avanzare tra le auto e tra gli ambulanti. Ce ne sono anche di quelli che vendono polizze per auto del tipo gratta e vinci ma, interpellati, mi confermano che sono solo per auto e per messicani. Uno di loro mi assicura che in frontiera troverò l’ufficio che cerco.
Percorro la coda lentamente e mi accorgo che si allarga mostruosamente oltre le 30 file, forse di più. Un groviglio inestricabile. Ai bordi strada una sequela di chioschi che vendono di tutto, dai rinfreschi alle borse, alle magliette e gadget più disparati. Sembra di essere ad una fiera paesana.
Riesco a passare tra le auto ed i banchetti, sfiorando con le borse la mercanzia esposta. Un po’ mi vergogno a fare il furbetto ed ignorare la fila che prosegue per quasi un chilometro ma è diventata una questione di sopravvivenza.

Arrivo finalmente in prossimità dei semafori che regolamentano l’accesso ai caselli di transito e mi fermo. Preparo passaporto e documenti e mi accorgo solo in quel momento di essere già davanti alla dogana degli Stati Uniti d’America. E quella del Messico? Non ho timbrato l’uscita sul passaporto e non ho timbrato l’uscita sui documenti di esportazione temporanea della moto.
Nel frattempo, davanti a me, a pochi passi, la polizia arresta un uomo e lo trascina via ammanettato. Chiamo un agente che dapprima non mi bada ma dopo un po’ si avvicina e comincia a chiedermi della moto, del viaggio, di me. Dice di avermi visto sul giornale e si congratula con me per le mie imprese. Però, penso io, sono già famoso da questa parte dell’Oceano. Rispondo con un laconico “maybe” ed accetto i complimenti. Non gli è chiaro perchè io senta la necessità di avere il timbro d’uscita sui documenti ma comunque si informa da un collega. Tutto bene, dice, procedi pure e ti metteremo un timbro noi. Passo alla verifica del passaporto che richiede una decina di minuti. Nel frattempo si avvicinano diversi agenti che mi fanno mille domande inerenti il viaggio e si complimentano e mi sorridono. Mi vien restituito il passaporto e mi invitano a procedere. “Non hai bisogno di nulla, puoi andare” – mi dicono.
Esco così, nella maniera più semplice, da quella che ritenevo essere la frontiera più problematica, senza visto, senza timbri, senza ispezioni e senza riempire nessun modulo. Spero solo che non mi facciano storie in uscita, quando sarà il momento.

La strada che mi accoglie appena oltre confine è un fiume in piena ma è talmente larga che il traffico scorre veloce. Sono cinque corsie per ogni senso di marcia ed il fondo è perfetto. Anche la mia Honda apprezza ed il fruscio che emette scorrendo sul cemento rigato sembra il ron ron di un gattone che fa le fusa.
Arrivo in periferia di San Diego e mi fiondo all’uffico turistico per chiedere informazioni sull’assicurazione. La signora che mi riceve, 200 kg di donna, è molto gentile e mi fornisce le indicazioni richieste. Mi reco pertanto presso gli uffici di una compagnia di assicurazioni, faccio la mia brava fila per più di un’ora, sottopongo i documenti ed aspetto un’altra ora. Il verdetto finale è che non possono assicurare targhe straniere. É la solita storia. E adesso? Se mi ferma la Polizia mi sequestra la moto. Se mi succede qualcosa sono guai seri. Qui non scherzano di sicuro su queste cose. Chiedo altre informazioni al distributore ma non mi sono d’aiuto. Decido di procedere.
Attraverso San Diego sfiorando il porto ed il centro. L’esposizione di navi da guerra che vedo allineate lungo la banchina è impressionante. Ci dev’essere mezza Marina degli Stati Uniti.
Proseguo lungo la 15 e mi avvicino a Los Angeles da sud/est. Sono combattuto tra il desiderio di attraversare la mitica città e tutti i ragionamenti che mi sconsigliano di farlo. Quando mi fermo per prendere un attimo di respiro e mangiare qualcosa, sono ormai le 4 del pomeriggio. Guardo la cartina e punto il GPS su Santa Monica. Pur essendo già in periferia di Los Angeles, per raggiungere il punto dovrei percorrere 102 km di traffico cittadino. Su strade larghe, probabilmente scorrevoli ma se non fosse così? E poi domattina rifare tutti i 100 km all’inverso? No. Analizzo la situazione, i pro ed i contro e decido per il no. Ma come, sei a Los Angeles e non ci vai? E Hollywood, Malibù, Beverly Hills? No, no e no!!! Un po’ mi dispiace però. Rianalizzo la situazione. Punto primo, sono senza assicurazione. Secondo, le auto hanno sempre poco rispetto delle moto e si avvicinano pericolosamente. Dovrei triplicare l’attenzione e concentrarmi solo sulla strada, senza distrarmi. Terzo, le città moderne non mi interessano più di tanto, con un’unica eccezione: la Grande Mela. Quarto e non ultimo motivo (o scusa), la mia Africa anela gli spazi aperti e soffre di claustrofobia. Nelle file dei semafori le sale subito la febbre. In conclusione decido di proseguire. Avrò così un valido motivo per tornarci, con più calma e con altri mezzi e sarà bello ricordare questo passaggio.

Seguo la freeway 15 che mi porta rapidamente verso l’interno, in direzione di Las Vegas. Il sole sta tramontando su un paesaggio senza cactus, dove le strade sono scorrevoli e senza “topes” ed i paesi che scorrono ai lati della strada appaiono più familiari ed accoglienti. La temperatura scende, è giunto il momento di cercare rifugio per la notte………..


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10 maggio 2010

625 chilometri di Patagonia in Baja California. Questa in sintesi la giornata di oggi. Vento e freddo come non mi capitava di sentire da quando ho lasciato la Ruta 40. I guanti pesanti non sono stati sufficienti a proteggermi, come pure il collare leggero. Mi son dovuto fermare per indossare il collare con pettorina pesante. Maglietta tecnica con manica lunga e maglia da cross sotto alla giacca, non sono servite ad evitarmi qualche brivido di freddo.

Il paesaggio ha presentato qualche variazione ma sempre su basi vulcaniche rivestite di cactus. Molti i posti di blocco militare che non so bene cosa cerchino. Sarà per impedire che si portino via i cactus?

Solo nella parte finale del mio viaggio odierno ho attraversato zone ad alta specializzazione agricola, come non avevo ancora visto in tutto il Mexico.
Ho anche rischiato di rimanere senza benzina. L’ultimo distributore che avevo visto, si trovava ad appena 100 km dalla partenza. Poi non ne ho più trovati!!! Dopo 320 km, già in riserva da un pezzo, mi sono fermato presso un ristorante dove vendevano privatamente anche la benzina. Mi è andata bene. Avevo messo nel serbatorio anche la scorta che mi portavo dietro da Puerto Cortes e che ormai da 3 litri si era ridotta a 2.

Il freddo mi dà molto fastidio, mi costringe ad indossare molti indumenti che legano i movimenti. Spero proprio che si tratti di un momento particolare. La stagione dovrebbe gia essere buona, così mi assicurano anche i locali, il caldo non dovrebbe tardare.
Ormai sono alle porte degli USA, domani dovrei attraversare San Diego. Stasera mi cucirò sulla giacca la penultima bandierina, quella a stelle e strisce.


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9 maggio 2010

Ieri sera ero arrivato a Santa Rosalia che il sole stava tramontando. Ero stato tentato di fermarmi lungo la strada in un paio di baiette dove avevo notato dei gruppi di turisti attendati o con i camper. Poi avevo deciso di proseguire per arrivare più avanti possibile, prima di notte.
L’albergo mi era sembrato carino, sebbene il personale avesse mancato, come  sempre ultimamente, di disponibilità e cortesia. Avevo saltato il pranzo a causa del problema della moto e mi prefiguravo una buona cenetta nel ristorante dell’hotel, visto che il centro abitato distava alcuni chilometri. Una doccia per lavar via polvere e sudore, una sistematina al bagaglio ed eccomi pronto per la cena. PC sottobraccio, mi sono avviato verso il ristorante che nel frattempo aveva chiuso. Conclusione? Salto della cena. Ultimamente mi sta riuscendo così bene!

Oggi, dopo una ricca colazione, preparo tutto per bene, controllo la moto e poi parto. É ormai mezzogiorno ed il caldo si fa sentire. La tappa è di soli 220 km e mi porterà dal “Mar de Cortes”, lato orientale della penisola, alla costa del Pacifico.
Il tratto da attraversare è desertico con vulcani, sabbia e gli immancabili cactus. Comincia a soffiare un vento piuttosto forte, a raffiche, che mi costringe ad avanzare piegato sul fianco. Procedendo, l’aria si fa più fredda e dopo alcuni chilometri mi devo fermare per indossare la giacca che non porto più da oltre un mese. Spero che la temperatura risalga avvicinandomi all’oceano, ma mi sbaglio. Anche quando arrivo a livello del mare, il freddo è sempre uguale, come lo è il vento.

La cittadina di “Guerrero Negro” è decisamente brutta. Una sola strada centrale asfaltata, costeggiata da costruzioni basse e distanziate tra loro e le vie laterali sabbiose che si perdono in lontananza. La sensazione che ricevo è quella di una cittadina provvisoria, come fosse un insediamento di frontiera o una cittadella mineraria, destinata ad essere col tempo abbandonata.

La zona è tuttavia rinomata per le saline e per la presenza, nei mesi invernali, delle balene che qui vengono numerose a riprodursi.

Lungo la via principale, su alcune costruzioni, è riportata la scritta “hotel”, ma senza troppa convinzione. Giro su e giù un paio di volte e poi entro nel cortile dell’hotel El Morro. Fa freddo e la stanza è fredda in tutti sensi. Mi verrebbe da accendere il riscaldamento. Ad appena 200 km da dove ero partito solo 4 ore prima, la temperatura è crollata di almeno 10 gradi.

Domattina dovrò partire presto, per tentare di percorrere i 600 km che mi separano da Ensenada e farà freddo. Ispeziono le valige ed estraggo un maglietta con le maniche lunghe, il girocollo ed i guanti pesanti che avevo smesso già dalla Colombia.

A cena ci vado con una giacca a vento, che tengo indossata durante tutto il pasto. Spero sia solo un evento locale e che poi torni il caldo. Chissà come sarà più a nord……….


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8 maggio 2010

Lascio Loreto a mezzogiorno. Devo percorrere solo 200 km per arrivare a Santa Rosalia, ultimo paese sulla costa, prima che la strada si inerpichi sulle montagne per attraversare la penisola e sboccare dall’altra parte, sul Pacifico, altri 200 km più avanti.
Esco dal paese ma mi sorge il dubbio se ci siano o meno dei distributori di benzina tra Loreto e ma mia meta. Accosto e chiedo ad un locale che mi conferma l’assenza di stazioni di servizio. Inverto la direzione e rientro in paese. Riparto.

Ho delle percezioni strane, mi par di sentire una leggerissima anomalia nel suono di fondo del motore, o forse del telaio. Compio qualche evoluzione zigzagando sulla larghezza della carreggiata e colgo un rumorino, forse una leggera vibrazione. Rallento, accelero, freno. Nulla. Riprendo la mia corsa che nel frattempo mi porta fuori dal paese, all’attacco delle prime salitine. Eppure c’è qualcosa che non mi convince, sembra quasi che la ruota posteriore sia sbilanciata. Già quella davanti balla da tempo. Il copertone non rimane calzato bene ed il rotolamento non è regolare. L’ho già fatta rimettere in sesto tre volte ma evidentemente devo solo cambiarlo. Ormai mi ha già fatto percorrere 14.500 km ed ha fatto un buon lavoro. Con altri 2.000 sarò a Reno, in Nevada, dove penso di procedere con il cambio delle gomme e quello di catena, corona e pignone. Ho parlato di questo proprio ieri sera con Miriano, che mi aspetta a casa sua, tra una decina di giorni. Qui in Messico inutile tentare.

Ancora una vibrazione, sembra la catena. Eppure l’ho appena controllata prima di partire. Mi fermo, scendo, controllo la catena che sembra a posto. Riparto. Un rumore strano, di fondo, non mi tranquillizza. Dopo 100 metri mi rifermo su uno spiazzo. Ispeziono nuovamente ruote e catena. Sulla catena, vicino al carter che copre il pignone, scopro una striscia di gomma o di plastica penzolante, che si appoggia sulla catena. Sarà quella la fonte del rumore, penso, il paracatena si è consumato fino a rompersi in due troconi e quello inferiore penzola sulla catena e di tanto in tanto provoca dei rumori o dei colpi strani. Decido di tagliare la parte inferiore, per evitare che si stacchi completamente e finisca nella corona, facendo uscire la catena dalla sede. Riavvio la moto e contento di aver individuato il problema, riprendo la corsa. Un rumore nuovo, molto forte, associato ad una vibrazione che percepisco tra i piedi, mi raggela. Fermo nuovamente la moto a bordo strada. La alzo sul cavalletto centrale, cosa che richiede più tentativi ed un grande sforzo a causa del carico sul retrotreno. Ripasso le maglie della catena una ad una, più volte e testo la stabilità della ruota. Sembra tutto a posto, eppure………… Si ferma un pick up con alcune persone sul cassone. Ci parliamo due minuti e poi io riparto finchè loro rimangono ad osservarmi. Percorro appena 100 metri e dalla base del motore, ormai inequivocabile segno di rottura, sale una raffica di rumori e percepisco dei colpi. Giro immediatamente la moto e torno a fianco del pick up. Sono piuttosto angosciato e chiedo, quasi senza speranza, se mi sanno indicare dove trovare un meccanico. Naturalmente oggi è sabato. Se, come credo, si tratta di un ingranaggio del cambio, la mia corsa finisce oggi qui, nel sud della Baja Clifornia, a mezzogiorno e trenta minuti. Scoraggiato, ascolto le indicazioni ma percepisco che deve trattarsi di un praticone, più che di un meccanico. Tuttavia non ho altra scelta. Sono appena fuori dal paese e tento di rientrarvi. Vado piano ma i rumori cominciano ad aumentare. Di tanto in tanto un colpo più forte accompagnato da un senso di instabilità della moto, come se da dentro qualcosa sbattesse sulle pareti del carter. Ecco le prime case. Mi hanno detto di arrivare all’altezza del primo “tope”, che lì c’è una chiesa e poi di girare a fianco dell’arroyo per due quadre e poi, all’esquina, girare nuovamente all’ischierda. Ma sono sicuro che sto per fare la cosa giusta? Mi sto avviando su uno sterrato polveroso, in mezzo ad una baraccopoli di catapecchie, con la moto che ormai strepita e trema ad ogni giro di ruota. Procedo lentamente e la temperatura sale. Mi fermo per chiedere informazioni. Nessuno sa dirmi nulla. Sono indeciso, proseguo o torno indietro? Sto già pensando a come recuperare la moto per spedirla a casa. Tanto è chiaro che ormai è finita, da qui non riuscirò mai a ripartire. Finalmente trovo un passante che mi indica con sicurezza l’abitazione del “taller”. Ci arrivo, al fondo di una discesa polverosa, con la moto che ormai geme e si sconquassa. Vado sulla porta di casa. Nessuno mi bada. Due donne continuano a parlare tra loro e mi viene il dubbio che non mi abbiano visto. Eppure sono lì, a 50 centimetri da loro, vestito che sembro un marziano, con il casco in mano. Ma si chiederanno, perdiana, chi cavolo sono e cosa ci sto a fare lì, a casa loro, o no? Dopo un po’ spunta un signore che sembra stia per andarsene. Poi mi parla. Allora esisto, mi hanno visto, evviva!!!
“Si – mi dice – io un tempo facevo il meccanico, ma ora ho smesso per mancanza di lavoro”. Forse sta leggendo lo sconforto sul mio volto ed accetta di dare un’occhiata alla moto. Anche per lui è il cambio, la catena è a posto, la ruota anche. “Io ho cessato l’attività – continua – ma c’è mio cognato che mi faceva da aiutante, che invece pratica ancora. Se ti va, ti accompagno da lui”. Sale in auto e si avvia. Lo seguo ma dopo pochi metri non me la sento, tali e tanti sono i rumori ed i colpi che salgono dalla scatola del cambio. Eppure le marce entrano bene. Mi fermo appena arriviamo all’asfalto e non intendo più procedere oltre. “Dai – mi dice – è qui vicino, ormai siamo arrivati!”. Altri 300 metri di sofferenza, un incrocio da attraversare a passo d’uomo e ci siamo. Non vedo nessuna officina! “Ma qui – mi rassicura l’ex meccanico – è questa l’officina, mettila qui la moto”. E mi indica una spazio di due metri per tre, a bordo strada, compreso tra un pick up senza cassone e chiaramente in disarmo, ed un’altro, sempre sfasciato, con i cerchi che ormai si sono compenetrati nel terreno ed il cui cassone funge da tempo da immondezzaio per i passanti del quartiere. Scoraggiato mi guardo attorno. La vita continua normalmente, nessuno si cura di me, sono impotente e senza speranza. É sabato, il sole picchia verticale sulla testa e non rimane che tentare. Solleviamo la moto sul cavalletto. Accendo ed inserisco la marcia. Il cambio lavora bene. Allento la leva della frizione e la ruota posteriore inizia a girare, sospesa nell’aria, ma il suo movimento appare ondivago, più di quanto avessi osservato solo quindici minuti prima. La catena pure, presenta un movimento ondeggiante. “Ecco – dice l’ex aiutante meccanico – è senz’altro la catena, si è deformata e batte sul carter”. “Ma si trova qui una catena nuova di questo tipo?” – chiedo senza troppe illusioni. “No, – mi risponde – bisogna ordinarla negli States e ci vorranno almeno 2 settimane prima che arrivi”. “Io – dice – posso solo togliere questa, pulirla bene ed ingrassarla, per vedere se il movimento migliora”. “Ok, procediamo allora” – dico io senza tanta convinzione ed ormai rassegnato.
Il meccanico non ha nemmeno la chiave inglese necessaria a smontare la ruota. Va e viene da una casupola che sarà probabilmente il suo deposito attrezzi ma la chiave più grande di cui dispone è una 20. Il dado del mozzo è un 24. Io nella mia borsa ho una chiave del 24, nuova, acquistata prorio alla vigilia della partenza, per un eventuale smontaggio della ruota. Bene, possiamo procedere con l’operazione. Viene estratto il perno, la ruota si stacca e come esce dalla sua sede ruzzolano nella polvere numerose biglie lucenti. Il cuscinetto sinistro appare spappolato. Ecco il motivo del rotolamento ondivago della ruota, ecco perchè la catena appare torta, ecco perchè dalla scatola del pignone provenivano colpi e rumori terrificanti. Fosse davvero questo il motivo, allora ci sarebbe speranza di risolvere il problema con relativa semplicità. “Si – mi conferma il ventiquattrenne meccanico – in tre giorni si dovrebbe riuscire a farsi mandare da La Paz i cuscinetti nuovi. Comunque tento di vedere anche qui, in paese, non si sa mai” – mi dice, e se ne parte alla ricerca. Torna quasi subito per chiedermi un finanziamento. Lui non ha una lira, anzi un peso, per comperare nulla.
Rimane assente per un’oretta ma quando torna il suo volto è sorridente.
Stringe in mano l’unico cuscinetto che esiste nel raggio di 200 km ed è quello giusto. Non mi par vero, sorrido, dentro di me e già mi rivedo in sella. Sono ormai le 17 quando faccio il giro di prova. I rumori sono spariti. Terminiamo di registrare la catena, spurghiamo i freni e ripongo gli attrezzi nella borsa. Alle 18 pago il conto di 30 pesos e ne aggiungo altri 10 di mancia, poi finalmente riparto. La mia corsa verso il Grande Nord è ripresa. Aspettami Alaska!!!!!!!!!!!!


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7 maggio 2010

Lo spettacolo della nave che lascia il porto, lasciandosi dietro una lunga scia di schiuma bianca ed il volo planato delle Fregate (uccelli appartenenti all’ordine dei pelecaniformi con hanno un’apertura alare di oltre 200 cm), perde ben presto i suoi spettatori. Il ponte comincia a farsi deserto. I sole tramonta e l’umidità della sera non tarda a farsi sentire. É aperta la caccia al giaciglio. Negli angoli più nascosti fanno la lora apparizione le prime coperte. Alle nove e mezza c’è già chi dorme tranquillo, steso sul pavimento, sopra ad una coperta che ha perso i colori di un tempo. Osservo le stelle. Siamo alla latitudine del Tropico del Cancro, che attraverseremo tra qualche ora. Da qui si distinguono nettamente la Stella Polare e parte della Costellazione della Croce del Sud. Acrux, la stella più luminosa, non appare alla vista.

Aspetto il più possibile e poi scendo. Il salone si è trasformato in dormitorio. La televisione tace, le luci sono soffuse e le persone presenti sono tutte in posizione orizzontale. Chi sopra ai sedili, chi sotto, nei corridoi e tra le poltrone. A molti sedili mancano i cuscini che sono stati smontati per creare i giacigli a terra. D’altra parte la gente deve pur dormire in qualche modo. Strano che una nave così, con un servizio giornaliero di questo tipo, non si sia dotata di spazi idonei, attrezzati a cuccette, se non proprio cabine. Mi appisolo ma non dormo molto. Mi alzo spesso e vado a prendere un po’ d’aria.

L’umidità ha già creato delle pozze d’acqua sul ponte. Controllo sul GPS la rotta e la distanza che ancora manca. Viaggiamo ad una velocità di crocera di 29 Km/ora. Arriveremo in orario, dopo 16 ore di traversata.
Alle 5,30, quando io dormirei ancora volentieri, comincia il traffico. La gente si sveglia e si alza. Va in bagno e chiacchiera come fosse giorno pieno. Loro sono a posto, hanno dormito ed ora chiedono di accendere la televisione. Evito di lasciarmi andare a commenti poco forbiti.

L’approdo è leggermente in ritardo. Riesco a fare tutti i controlli alla moto, prima che arrivi il mio turno.
Appena a terra c’è un posto di blocco militare. Alla classica domanda – “da donde viene?”- riesco a trattenere una legittima risposta spiritosa e me la cavo senza ispezione. Fa già caldo. La giacca l’ho legata sul bagaglio e viaggio con la sola protezione di sicurezza.
La cittadina di La Paz è fiorente, per il ricco turismo americano di cui si nota subito la presenza. Ci sono banche internazionali, hotel e ristoranti in abbondanza. Prelevo un po’ di dollari e prendo un caffè con pastina (3 dollari), poi riparto verso nord.
I primi 200 chilometri si possono riassumere cosi: “cactus”. Solo castus? Si, solo ed esclusivamente cactus. Ne ho contati diecimiliardicinquecentomilionicentosettantatremilaundici, uno più, uno meno. E poi, i successivi 150 Km? Cactus su rocce laviche e cactus su piroclasti. -Piroclasti?- Si, piroclasti litici accessori, litici accidentali e xenoliti. Piroclasti per tutti i gusti, insomma. Montagne di piroclasti, di bombe, blocchi, lapilli. Frane di piroclasti e su tutto….cactus!!!

Si sale lentamente tra spuntoni rocciosi di origine chiaramente vulcanica, neri ed affumicati. Il paesaggio è lunare (ma ci sono i cactus per riportarci sulla terra) finchè non appare tra le gole qualche scorcio di mare di un azzurro come solo gli occhi di un angelo potrebbero essere.
Dalla strada salgono folate di calore soffocante. Ci saranno almeno 50 gradi. Arrivo a puerto Escondito (non quello dell’altro giorno, ovviamente) e mi fiondo in un supermercato dove mi scolo un succo d’arancia ed un mezzo litro d’acqua fresca. A Puerto Escondido non c’è nulla, solo un marina.
25 km più avanti arrivo a Loreto, altro contro balneare americanizzato. Mi sa che ormai dovrò abituarmici. Mi si rivolgono tutti in inglese. Peccato, cominciavo a trovarmi così bene con lo spagnolo…………


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6 maggio 2010

Sto traversando il Mare di Cortes, a bordo del traghetto “Santa Marcela”. É la prima volta che navigo in Pacifico. La prossima sarà su una barca più piccola.

Avevo lasciato Guadalajara dopo averla attraversata con relativa facilità, lungo una sorta di periferica che però è piuttosto interna. Il traffico intenso era abbastanza fluido e sono sempre riuscito a mantenere la temperatura del motore a livelli bassi. Quando entro nelle città e comincio a fermarmi in fila a tutti i semafori, è sempre questa la preoccupazione più grande, la temperatura. Specialmente a queste latitudini, quando si arriva spesso oltre ai 40 gradi, può diventare un problema. La ventola entra in funzione ma contiene, non riduce. Per prudenza, quando mi fermo, spengo subito e riaccendo con il verde. La situazione peggiore è quando la fila si muove piano e si ferma continuamente. Sento la ventolina che parte con un sibilo leggero e osservo la lancetta che scende lentamente. Su e giù, su e giù……….. Non vedo l’ora di uscire dal traffico e lanciare la moto in velocità. Solo allora la temperatura scende a livelli tranquillizzanti.

Da Guadalajara a Mazatlan è quasi tutta autostrada. Come ieri, i caselli sono numerosi ed il costo spropositato. Solo così riesco però a tenere una media sufficiente a garantirmi l’arrivo al porto di Mazatlan per il primo pomeriggio. Ho consultato Internet per verificare orari e prezzi dei traghetti. Le notizie non sono chiare. Qualche sito pubblicizza servizi giornalieri, qualche altro a giorni alterni. L’orario probabile dovrebbe essere alle 17,00.
Alle 14,45 esco dall’autostrada, a 26 km da Mazatlan. Gli ultimi 26 km mi mangiano un’ora.

Arrivo al porto alle 15,40. Il traghetto parte alle 16,00!! A pelo, anzi no, con un’ora di margine. L’orario infatti è cambiato. Qui il fuso è diverso rispetto a Mexico City, è un’ora indietro e sono quindi le 14,40. Che c……ortuna.

Anche il prezzo del trasporto è una sorpresa positiva. Paga solo la moto. Sono 1.950,00 pesos, pari a circa 170 dollari. Non esistono cabine ma solo sedili tipo aereo (o pullman).
Sistemo la moto al primo livello e cerco il salone dei passeggeri. Quasi tutte le poltroncine sono occupate da persone sdraiate o da coperte stese su 3/4 sedili. Mi adeguo ed occupo un sedile per borsa serbatoio e zaino, un sedile per abbigliamento da moto che mi tolgo immediatamente eseguendo uno spogliarello tra la gente (e chi se ne frega) ed uno per il casco. Poi esco a godermi la manovra di partenza e l’ultimo sole che ancora scotta. Il volo di fregate ed altri volatili marini ci accompagna fino al tramonto. Sfruttano la dinamica che crea la prua della nave per farsi trasportare in alto e poi veleggiare senza batter le ali. Di tanto in tanto si tuffano in mare per ghermire una preda e poi riprendere il volo. Comincia a far freddo. Scendo nel salone per prendermi la giacca e quando risalgo la mia sedia non c’è più. Ovvio, ce ne sono così poche. Scendo nella stiva e mi sdraio sul sedile della moto, con le gambe stese ai lati del manubrio. Sto proprio bene e rapidamente mi addormento. Oggi non ho mangiato nulla, solo un caffè prima di partire. Non volevo perdere tempo.
Appena salito sul Ferry e notato un locale “simil cucina”, mi ci ero recato per metter qualcosa sotto ai denti. – No, troppo presto, la cucina apre alle 17,30 – , mi aveva detto la cuciniera. Beh, non importa, andrò più tardi, mi son detto. Quando ci torno sono le 19,40. – Troppo tardi, la cucina chiude alle 19,00 – recita a memoria la solita cuciniera. Poco male, da quello che vedo nei piatti non dev’essere stata una grande perdita. L’arrivo è previsto per le 8 di domattina. Sarò tra i primi a far colazione.


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5 maggio 2010

Ieri avevo studiato accuratamente l’itinerario per arrivare alle Piramidi senza passare per la metropoli di Mexico City. Oggi ho fatto la stessa cosa e dai paraggi di Teotihuacan, dove ho trascorso la notte, ho pianificato una rotta est-ovest lungo un anello che mi doveva mantenere ad una quarantina di km a nord, rispetto al centro città. Solitamente mi oriento con la carta e verifico la rotta con il sole ed evito così errori grossolani.

Stamattina, proprio prima di uscire dalla bellissima sala conferenze dell’hotel, dove aveva passato la notte la mia Africa riposando su un pavimento di moquette, mi è venuta la sciagurata idea di chiedere consiglio ad un cameriere dell’albergo. Mi sono così avviato verso il centro della città, distante una cinquantina di chilometri, con l’idea di intercettare una periferica che mi portasse verso ovest, prima di entrare nel traffico della City.

Avevo insolitamente posizionato il GPS, che solitamente tengo chiuso nella borsa ed uso solo per registrare la traccia, nella tasca trasparente della borsa da serbatoio. Da lì, il fedifrago mi confermava la validità del consiglio ricevuto dal cameriere. Quando ho realizzato che stavo per commettere un grosso errore, ero già stato fagocitato dalla corrente d’auto, camion ed autobus e trascinato senza possibilità di uscirne in un toboga mostruoso che mi ha condotto, mio malgrado, fino al cuore della città.

Ne sono uscito bene, dopo un’ora e mezza di ansia e tutto sommato contento di aver potuto sbirciare nelle viscere di questo mostro da 20 milioni di abitanti. La sua periferia è infinita e fa paura. Il centro è moderno ed il traffico scorre, contro ogni logica. A dire il vero questi sono giorni di festa e probabilmente non c’è il caos totale. Comunque me la sono cavata bene e relativamente presto.

Ho preso poi l’autostrada verso Guadalajara, una macchinetta mangiasoldi come se ne vedono poche. Ho speso 20 dollari di benzina ma almeno 70 di autostrada per fare 500 km. Il calcolo delle tariffe non ha criterio. Si trovano dei caselli ogni 20 o 30 o 50 km. Solita fila per pagare 5, 10 o 13 dollari per volta. E pensare che in sudamerica le moto non pagano!!!
La scelta tuttavia si è rivelata pagante (in tutti i sensi) e sono arrivato a coprire complessivamente 585 km che non avrei sicuramente percorso su strade normali.

Domattina spero di raggiungere la costa del pacifico e godere finalmente di qualche scorcio di panorama. Oggi, come ieri, il territorio che ho attraversato non era di alcun interesse paesaggistico. Il 90% è desertico e montagnoso, con arbusti e rovi. Le foto che allego al diario di oggi non sono mie.


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4 maggio 2010

Oggi prua su Teotihuacán, l’antica città Azteca.
Per evitare il caos di Città del Mexico ho preferito compiere un ampio giro, giungendo a Teotihuacan da Nord.
Ho perso la mattinata per arrivare e mi sono arrampicato sulle piramidi per tutto il pomeriggio. É davvero uno spettacolo meraviglioso. Dalla cima della Piramide del Sole si domina la pianura. Dalla cima della Piramide della Luna si apprezza la grandiosità del sito. Dopo tanto su e giù sotto un sole cocente, considerando anche i 70 giorni di sella, ho preferito fermarmi in zona. Ho trovato un hotel. Quando mi hanno detto che la moto l’avrebbero messa nella sala conferenze, mi sono commosso…………

Se interessa, ecco un po’ di storia.
Teotihuacán è il più grande sito archeologico precolombiano del Nord America.

La città è situata a circa 40 chilometri a nord-est di Città del Messico. La superficie del sito copre un’area di 82,66 chilometri quadrati. Fa parte del Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO dal 1987.

Fu fondata e crebbe tra il II e il VII secolo d.C. e nel periodo di massimo splendore vi abitavano circa 200.000 persone. La città venne concepita secondo un disegno urbanistico che si espandeva intorno a un asse centrale, il Viale dei Morti, dominato dalle gigantesche moli delle Piramidi del Sole e della Luna.

Sorgeva in una valle fertile e all’epoca acquitrinosa, circondata da montagne ricche di giacimenti di ossidiana e minerali vari. Sull’origine della popolazione che ha saputo creare tanta maestosità urbanistica sono state fatte le più disparate ipotesi. Il mito attribuisce la costruzione delle piramidi agli Dei o ai giganti, mentre in realtà si ritiene che nella valle di Teotihuacán confluirono etnie differenti, dotate di intelligenza e fantasia che riunirono capacità e lavoro per creare una città-stato così potente da essere in grado di estendere la propria influenza fino alle lontane terre dei Maya.

L’edificio più imponente di Teotihuacán è la Piramide del Sole, costruita a quattro livelli sovrapposti su una base di circa 225 metri per lato e alta in origine 75 metri, compreso il tempio sulla sommità, ora scomparso (attualmente l’altezza eè di 64 metri). La Piramide era in origine ricoperta da stucco di colore rosso. Si ritiene che siano stati almeno tremila gli operai coinvolti nell’edificazione della piramide, per oltre trent’anni di lavoro. L’asse della piramide è orientato perfettamente in direzione est-ovest, ovvero nel senso del passaggio del sole nel cielo e la facciata principale della Piramide è orientata verso il punto in cui tramonta nel giorno del solstizio d’estate. Molto probabilmente questa costruzione simboleggia il centro dell’universo, con i quattro angoli che corrispondono ai quattro punti cardinali.

La Piramide della Luna si trova all’estremo nord del Viale dei Morti. Pur essendo di dimensioni inferiori alla Piramide del Sole, la cima risulta alla stessa altezza della piramide più grande in quanto sorge su un terreno più elevato. Dalla sua sommità la visione del Viale dei Morti, lungo più di 2 chilometri (chi dice 3, chi 4) e largo circa 45 metri, è superba. Sul Viale dei Morti, intervallato da numerose gradinate necessarie a vincere i dislivelli, si incontrano templi, altre strutture piramidali e resti di palazzi.
Nel lato sud del Viale dei Morti si trova la “Cittadella”, un complesso di quattro piattaforme riservate ai sacerdoti e ai governanti. La struttura piramidale del Tempio di Quetzalcóatl, il mitico sacerdote-sovrano rappresentato come il “Serpente Piumato”, è all’interno di un’area nascosta da una piattaforma aggiunta successivamente.
Il ritrovamento nell’area della Cittadella di numerosi scheletri di sacerdoti sacrificati, cosparsi di conchiglie e figurine d’argilla, con le mani legate sulla schiena e pezzi di giada nella bocca, ha confermato la pratica dei sacrifici umani a Teotihuacán.
Gli Atzechi non furono i costruttori di Teotihuacan ma essi scoprirono una città esistente ed in rovina già da 700 anni e se ne impossessarono.



Alcune informazioni sulla conquista del Messico da parte dei “Conquistadores” e la conseguente distruzione della civiltà Atzeca.

Hernan Cortés partì da Cuba nel febbraio 1519, con 11 navi e 508 soldati, diretta verso la costa del Centro America. Giuntovi, Cortés fece bruciare le navi per eliminare qualsiasi tentativo di fuga dei suoi soldati (banditi!! ndr).

Questo piccolo esercito fu accolto con il favore dell’allora reggente, l’imperatore azteco Montezuma che riteneva i soldati inviati di Quetzalcoatl, una delle divinità del tempo. Cortés si procura degli interpreti ed inizia a dialogare con i capi dei popoli sottomessi da Montezuma, stringendo con essi alleanze.

Quando Cortés entrò a Tenochtitlan accolto con tutti gli onori da Montezuma, aveva già messo assieme un esercito di 3000 indios. Gli spagnoli presero il controllo della città con facilità in quanto l’imperatore obbediva a Cortés al punto da far cessare i sacrifici umani e persino di farsi battezzare.

L’occupazione di Tenochtitlan terminò in un bagno di sangue. Approfittando dell’assenza di Cortes dalla capitale, il suo luogotenente Pedro de Alvarado fece massacrare un gruppo di aztechi mentre celebravano un rito religioso. Il popolo si sollevò contro gli spagnoli, che si rifugiarono dentro al palazzo di Montezuma. Al suo ritorno Cortes non riuscì a capovolgere la situazione e gli spagnoli furono costretti a ritirarsi dalla città. In quella occasione, Montezuma fu ucciso.
Cortés riordinò l’esercito e marciò sulla città riconquistandola dopo 75 giorni di assedio, il 13 agosto 1521. Un anno dopo gli spagnoli presero il controllo dell’intero paese. L’imperatore Carlo V nominò Cortés suo governatore.



Montezuma, cenni conoscitivi.

Montezuma II, erede di Ahuitzotl, era il sovrano della città di Tenochtitlán e tlatoani azteco.

Montezuma non era un guerriero ma piuttosto uno studioso e sacerdote. Secondo la leggenda lui non desiderava essere imperatore e dopo essere stato eletto, scomparve. Lo cercarono e fu ritrovato mentre faceva pulizia in un tempio.

Dopo avere assunto la carica, licenziò la maggior parte delle autorità e le rimpiazzò con i suoi ex-studenti. Scelse di vivere isolato ed elaborò un rituale che gli permetteva di vivere separato dalla gente comune. Riuscì tuttavia ad espandere il potere di Tenochtitlán su tutto il territorio circostante.

Nella primavera del 1519,quando Cortes sbarcò sulla costa, Montezuma gli mandò incontro un ambasciatore. Costui, quando incontrò lo spagnolo, pensò che assomigliasse al dio Quetzalcoatl e così lo trattò. Cortez intrapprese la sua avanzata su Teotihuacan e Montezuma cercò di fermarlo inviandogli regali e maghi ma a nulla servirono contro la brama di conquista e la cupidigia degli spagnoli attirati dalla visione dell’oro.

L’8 novembre 1519, Montezuma incontrò Hernán Cortés, che riteneva essere il dio Quetzalcoatl e lo ricevette nel palazzo di Axayacatl, con tutti i suoi uomini e 3.000 alleati indios. Cortés ordinò di por fine a tutti i sacrifici umani e rimpiazzò le immagini degli dei aztechi con icone cristiane. Montezuma accettò anche di essere battezzato, si dichiarò suddito del re Carlo I di Spagna e si sottomise a tutte le richieste degli spagnoli.

Durante un’assenza di Cortés, il suo vice comandante, Pedro de Alvarado, interruppe la celebrazione azteca di Toxcatl e uccise tra i 350 ed i 1000 personaggi più in vista delle classi nobili azteche, durante quello che fu chiamato “Il Massacro del Grande Tempio”. Il popolo si sollevò in rivolta e gli spagnoli fecero prigioniero Montezuma. Il 29 giugno 1520, nel tentativo di calmare la folla inferocita, Montezuma apparve sul balcone del suo palazzo, chiedendo alla sua gente di ritirarsi. Il popolo lo bersagliò di pietre e frecce. In tale occasione Montezuma rimase ucciso. Cortes sostenne che fosse stato colpito da una pietra ma studi recenti dimostrerebbero che venne forzato dai soldati a bere oro fuso. Un anno dopo gli spagnoli avevano il potere ed il controllo di tutto il suo regno.


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3 maggio 2010

Ho cominciato anch’io a misurare le distanze in termini di tempo, anzichè di chilometri. Il risultato è più attendibile. Il ragionamento tiene conto del percorso, se pianura o montagna, del fondo stradale, del traffico, del mezzo e delle condizioni del tempo. Così facendo riesco a programmare l’arrivo con buona approssimazione. Tanto, gira e rigira, la media non supera mai i 50 km/h.

Il percorso di questa mattina mi ha portato ad oltre 2.000 metri di quota, tra splendide pinete (miste a banani) che mi hanno regalato profumo di resina ma purtroppo anche l’acre odore del fumo degli incendi che riempiva i fondovalle. I “topes” mi hanno tormentato in continuazione, costringendomi a continue frenate. Quando ti avvicini ad un villaggio cominci a cercarli con lo sguardo. Li vedi da lontano (non sempre) e li studi mentre ti avvicini. Cerchi il punto più basso da dove attaccarli. Se non riesci a rallentare a tempo non ti resta che alzarti sulla sella e stringere le mani sulle manopole. In genere sono in gruppi di quattro ma spesso ce n’è qualcuno di anomalo e ti inganna. Anche la loro forma varia e quando ne infili una serie e pensi di aver capito, ti capita quello strano, alto 30 centimetri, che ti fa decollare. Ogni volta che ti rilassi o ti distrai te ne piazzano uno sotto alle ruote. Ma da dove li tirano fuori? Ci sono quelli federali, dipinti a righe gialle e segnalati con anticipo, quelli statali, dipinti si, dipinti no, con il segnale posto in corrispondenza del “tope” stesso (troppo tardi!), quelli municipali di forma e consistenza variabile, poco segnalati ed infine quelli autocostruiti dai residenti con ubicazione, forma e dimensioni assolutamente imprevedibili. Ce ne sono di cemento, di asfalto, di terra e di corda (una grossa gomena stesa trasversalmente alla strada). Ah, dimenticavo, ci sono anche quelli dell’esercito, fatti con striscie di copertoni e quelli della polizia, multipli e ravvicinati. Ce n’è, insomma, per tutti i gusti.
Avevo letto, in uno dei tanti diari scritti da visitatori di questa terra…… – “…..superi lentamente una macchina malconcia che in tempi più gloriosi probabilmente circolava in America e senti l’odore pesante del sudore del campesino che la guida (baffi e pancia di tutto rispetto, canottiera, con una birra in mano e il resto di un “six” sul sedile, la Virgen de Guadalupe tatuata sulla spalla, il rosario appeso allo specchietto, il cruscotto ricoperto di moquette color marrone-e-polvere……….” -.
No, nulla di tutto questo. A parte il popolo dei pick-up, che ho ampiamente descritto, io vedo solo macchinoni fuoristrada belli, lucenti e possenti. Al loro interno non ci si vede, perchè hanno tutti i vetri oscurati, ma non me lo immagino proprio il campesino in canottiera con baffi e pancia. Storie di altri tempi.

Sono rientrato nell’entroterra, precisamente ad Oaxaca (si pronuncia Auacha, chissà perchè?) per recarmi sul Monte Alban, noto per le sue rovine.
Quando sono arrivato in periferia della città ed ho letto il cartello indicatore, stavo scoppiando dal caldo ed il termometro della Honda era costantemente al massimo. Stavo per tirare dritto e dirigermi su Puebla che avrei comodamente raggiunto prima di notte. Poi ci ho ripensato ed ho preso la decisione giusta. Il Monte Alban meritava assolutamente una visita. Le rovine coprono un’estensione molto vasta di terreno e sono ben conservate. Si trovano ad un’altitudine di circa 1940 metri sul livello del mare.
Il sito comprende centinaia di terrazze artificiali e una dozzina di raggruppamenti di costruzioni piramidali che ricoprono la sommità e i fianchi della piccola catena montuosa.Anche le rovine delle vicine colline di Atzompa e di El Gallo a nord sono considerate parte integrante dell’antica città.
La città viene ritenuta una delle prime della Mesoamerica e la sua importanza consegue dal suo importante ruolo come centro socio-politico ed economico della civiltà zapoteca, ruolo che ricoprí per quasi un millennio. Nel periodo compreso tra il 100 a.C. ed il 200 d.C, Monte Albán divenne la capitale di uno stato espansionistico che dominò una parte importante dell’attuale territorio dello stato di Oaxaca.
Terminata la mia rapida visita, ho inforcato la sella per dirigermi su Puebla ma il buio mi ha colto prima che arrivassi e così ho ripiegato su Tehuachan.


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