22 maggio 2010
Da San Francisco ho seguito la freeway 101 fino a Santa Rosa, dove mi sono fermato per la notte. Tutta la contea è conosciuta per la produzione del vino che, iniziata da oltre quarant’anni, ha cominciato a rivaleggiare per quantità e qualità con le più blasonate concorrenti europeee.
Correndo lungo l’autostrada si possono ammirare le file ordinate di vigne che ricoprono le colline. La temperatura è ancora bassa e le foglie stanno appena germogliando. Uno dei paesi si chiama Asti ed è circondato da basse alture che ricordano appunto le Langhe. Un cartello informa che qui vive una colonia di italiani ed una di svizzeri.
Proseguo verso nord e comincio a salire. Arriva anche la pioggia e la temperatura scende fino ai cinque gradi.
La strada è sempre bella e non passa mai tra i paesi che sembrano non esistere. I chilometri scorrono veloci in questa parte del globo, nulla a che vedere con quanto percorso nelle regioni del sud, dove non si arrivava mai. Dove però ci si godeva una guida vera, con curve continue e corse sfrenate. Qui è tutto un susseguirsi di cartelli che indicano, consigliano, vietano. Ho la sensazione di essere sotto sorveglianza continua, che se sbaglio anche una sola manovra mi salti fuori l’auto dello sceriffo della Contea.
La strada entra nella foresta e costeggia un fiume tortuoso dall’acqua verde scuro, di cui vedo scorci di tanto in tanto. Ad un certo punto un segnale indica la possibilità di percorrere una strada alternativa e parallela, il cui nome solletica la mia curiosità. Si chiama “Avenue of the Giants”, la strada dei giganti. Non esito ad uscire ed in breve mi ritrovo in un tempio verde, le cui colonne sono i fusti altissimi di monumentali alberi dalla corteccia rossastra solcata da profondi solchi e la cui volta è verde di foglie ed azzurra di cielo. Senza saperlo mi sono ritrovato nel “third largest California State Park” che ospita e protegge la “Rockfeller Forest”, la più estesa foresta di “redwood” del mondo. Sono loro i “Giganti”, le sequoie. La maestosità di queste piante, la penombra che crea il loro ombrello di rami e foglie, dona al luogo un’atmosfera di sacralità. Non si può che fermarsi e contemplare in silenzio.
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21 maggio 2010
Come avevo sospettato e nonostante le assicurazioni del meccanico della Concessionaria di Reno, la catena è molto tesa. Ho percorso 400 km ma non si è allentata per niente. Stamattina devo sistemate la cosa prima di fare danni irreparabili.
L’intervento è semplice ed ho con me le chiavi necessarie. Guardo comunque su internet per vedere se c’è qualche meccanico di moto nei paraggi. Si, sono fortunato e vedo che a 2 km di distanza c’è un’officina. Arrivo e in due parole spiego il problema ad uno dei meccanici. Non fa commenti, non chiede nulla e mi manda in ufficio per la registrazione. Una ragazzetta mi fa compilare un modulo con tutti i miei dati anagrafici e la descrizione dell’intervento richiesto. Poi attendo fuori, nel percheggio. L’officina si apre oltre un cancello in rete metallica, rigorosamente chiuso. É pulita ed ordinata e dentro si muovono 2 meccanici. Uno di loro indossa dei guanti neri, dev’essere il “primario”. Dopo un po’ l’impiegata esce per dirmi che tra poco finiranno il cambio dell’olio della moto su cui stanno lavorando, poi faranno una breve pausa per il pranzo e poi inizieranno con la mia.
Vado a fare 2 passi e quando torno la mia Honda è già in sala operatoria. Mi avvio verso il cancello socchiuso ma il meccanico mi precede e me lo chiude praticamente in faccia, inserendo anche il chiavistello. Mi fermo, un po’ sconcertato e aspetto. Dietro alla grata c’è del movimento per alcuni minuti e poi ecco che il meccanico si avvicina con il carrellino degli attrezzi alla ruota posteriore della moto. Ora mi chiederà qualcosa, penso, e rimango lì a guardare da fuori, attraverso la rete.
Vedo che allenta i dadi del mozzo, tira, batte, sistema e poi chiude. Sempre con la schiena girata verso di me, non una parola per l’intera durata dell’operzione. Ho l’impressione di essere dietro il vetro della sala operatoria, in una clinica universitaria, mentre il chirurgo opera. In un momento di coraggio mi ero permesso di suggerirgli di allentare abbastanza, perchè la moto è carica. Quando termina mi si rivolge, finalmente, e mi chiede di entrare per verificare l’intervento. Entro in officina passando per l’ufficio. La catena è tesa, esattamente come prima. Ok, mi dice il primario, ho capito, ora esci. Riprende l’operazione. Io fuori, ad osservare ansioso, con il naso tra le maglie della rete. Ora sono in due e si avvicendano sulla “paziente”.
Terminata l’ultima “sutura”, mi richiamano per la verifica finale. Ora mi sembra che vada bene, dico, e naturalmente giro i tacchi ed esco prima che mi caccino loro. Non resta che aspettare che dimettano la “paziente” (il paziente, in tutti i sensi, sono io).
Dopo alcuni minuti di completa assenza di attività ecco che si apre il cancello ed esce la moto spinta dal primario in persona. Me la mette sul marciapiede e rientra in sala operatoria, senza proferire parola. Non so che fare. Aspetto che mi dicano qualcosa. Dopo cinque lunghissimi minuti esce la ragazza e mi dice di passare in ufficio per saldare il conto. 5 dollari e nemmeno una parola. Esco, saluto e me ne vado. Caro, povero e umano Perù!!!!!
Mi rifaccio la vista transitando sul Golden Bridge, attorniato da auto sfreccianti e filmando la scena con la mia nuova telecamera montata sul casko. Mi allontano verso nord, sulla freeway 101…………….
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20 maggio 2010
Ho girato San Francisco in lungo e in largo. É una città molto tranquilla e disciplinata. Ho percorso le vie più note e visitato il Pier 39, con i suoi artisti e le sue costruzioni caratteristiche. Si tratta sicuramente di un bel recupero architettonico e rappresenta per la città un punto di ritrovo ed uno sfogo per chi la vive. Ricco di ristoranti e negozi di souvenir, completa la sua particolarità con la presenta di una numerosa colonia di leoni marini (otarie) che sotto agli occhi increduli di molti turisti, si stanno a crogiolare al sole su delle piattaforme galleggianti che il comune ha appositamente ormeggiato ai limiti del Marina.
Ho percorso la Lombard Street, molto particolare e bella. Ho visto in azione i tram senza fili e senza motore, che si arrampicano sferragliando lungo le strade che salgono sulle colline. Erano stracarichi di turisti che si ammassavano dentro e fuori per tentare di scattare qualche fotografia. Ho visto gruppi in bicicletta, con le bighe, con le macchinette a tre ruote, nei risciò, sulle barche, sui pulmann senza tetto dei site seeing. La citta vive e pulsa, al suono delle orchestrine jazz che popolano strade e localini della zona del porto. Ho percorso il Golden Bridge e sono riuscito a fotografarlo al tramonto, sicuramente il momento migliore.
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19 maggio 2010
Ieri sera io e Miriano, dopo aver ritirato la moto, siamo andati al ristorante di Alberto, un suo amico italiano con la passione del motociclismo. Da lui al martedì di ritrovano una ventina di appassionati e così ho avuto modo di conoscere un po’ di bikers di Reno. Uno in particolare è arrivato con una Guzzi Lario dell’86, molto bella.
Oggi, prima di partire, dovevo risolvere il problema della lampadina che si è bruciata. Doveva essere ancora quella originale, di 22 anni fa, perchè alla Honda non sono riusciti a trovarne una di uguale. Mi son fatto indicare da Alberto il nominativo di un elettrauto in grado di sostituirmi l’attacco per adattarlo al tipo di lampadina che si trova oggi sul mercato. Alberto mi ha anche suggerito di provare ad andare in un certo negozio, dove a suo parere, sono ben forniti di ogni tipo di lampada. Ci siamo andati questa mattina ed il commesso ha subito detto di non averne di quel tipo ma poi, preso dagli scupoli, ha voluto ricontrollare nell’archivio. Se n’è andato in magazzino ed è tornato poco dopo con 2 esemplari di lampada simili a quella che cercavo. Andavano bene. Questa si, è fortuna.
Sono partito tardi, dopo aver pranzato ancora una volta dai miei amici. La strada per San Francisco è lunga 385 km ma è tutta freeway. Purtroppo sul Donner Pass piovigginava e la temperatura era scesa sui 5 gradi. Mi sono infilato la tuta da pioggia e con quel freddo non ho sudato per niente.
L’arrivo a San Francisco, con la visione della skyline della città, mi ha ricompensato del freddo patito. All’entrata in città ho voluto collaudare la telecamerina che ho comperato a Reno ed ho posizionato sul casco. Ho fatto così le uniche foto della giornata.
Mi sono infilato nel traffico intenso ed ho guadagnato posizioni spostandomi tra le 4/5 corsie. Qui si può sorpassare sia a destra che a sinistra senza incorrere in penalità.
Gli automobilisti di qui sono davvero molto disciplinati e calmi. Nessuno corre oltre il limite di legge e non esistono i “furbi”. É davvero un buona cosa. Sono arrivato verso sera e non ho avuto nessuna difficoltà per arrivare all’hotel che avevo prenotato via internet. Unica sorpresa, trattandosi di un buon hotel, l’esclusione della prima colazione, l’assenza del collegamento internet free in camera ed il pagamento del parcheggio della moto (16,00 dollari/giorno). Ho un po’ la sensazione che se potessero mi farebbero pagare anche l’aria che respiro. Tutto gira intorno al dio Dollaro. Il segreto è quello di averne!!!!!!!!!!!!!
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18 maggio 2010
Ieri l’officina Honda era chiusa per turno settimanale. Oggi sto friggendo perchè spero mi completino i lavori entro sera. Domattina vorrei partire. Stamattina ho visitato il centro di Reno. É veramente una bella città, molto vivibile. Siamo entrati al museo dell’auto che espone più di duecento auto d’epoca splendidamente conservate. Ci vorrebbero due giorni per soddisfare la curiosità e vedere bene tutti gli esemplari esposti.
É sera. Ho ritirato la moto e domattina partirò per San Francisco. Purtroppo il tempo annunciato per i prossimi giorni è pessimo, con pioggia e al nord neve. Spero di riuscire a trovare un varco tra le nuvole, contando sulla mia fortuna.
17 maggio 2010
Oggi riposo e sistemazione dell’attrezzatura. Ho lavato la tuta e l’interno del casco, ricucite le bandierine che cominciavano a staccarsi e sistemata la telecamerina sul casco. La giornata a Reno è piovosa e sul Donner Pass, dove siamo transitati in auto per una capatina a Sacramento (California), abbiamo trovato una piccola bufera di neve. Spero che per domani il tempo si sistemi, perchè dovrà ripercorrere lo stesso tragitto in moto e la temperatura mi sembra piuttosto bassa.
Mi hanno raccontato una storia, una storia vera accaduta sul passo all’epoca dei pionieri, eccola.
- Il Donner Party era un gruppo di pionieri che nel 1846 si erano riuniti in carovana per compiere il tragitto che normalmente, dopo quattro o sei mesi di viaggio, li avrebbe portati a raggiungere la California. Prestando credito a quanto dichiarato da un esploratore, tentarono di percorrere nuove vie attraverso le montagne dello Utah ed il deserto salato (the Great Salt Lake Desert) ma le difficoltà del terreno causarono forti rallentamenti e consistenti perdite di carri e bestiame. La loro marcia era scesa a medie di due kilometri e mezzo al giorno e tutti gli uomini validi erano perennemente impegnati nell’opera di disboscamento e rimozione delle pietre per permettere in passaggio dei carri. Giunsero pertanto alle pendici della Sierra Nevada alle soglie dell’inverno, nel novembre del 1846. Affrontarono quello che doveva essere l’ultimo passaggio di montagna in una difficile marcia che li portò oltre quota 2000 ma furono sorpresi da un inverno anticipato e particolarmente rigido. Forti nevicate bloccarono i carri in prossimità del passo, nei pressi di quello che all’epoca era conosciuto come il Lago Truckee.
Dopo un mese di tentativi di liberare il convoglio, le provviste cominciarono a scarseggiare. Alcuni gruppi di pionieri tentarono delle sortite per cercare di raggiungere altri gruppi di carovane e chiedere aiuto. Anche dalla vicina California furono organizzate spedizioni di soccorso che non riuscirono però nel loro intento fino a febbraio inoltrato. Quattro mesi di prigionia forzata tra le montagne, col freddo e con gli stenti, avevano falcidiato il gruppo e degli 87 partiti solo 48 erano riusciti a sopravvivere.
Faceva parte della carovana un gruppo di 9 carri appartenenti alle famiglie Reed and Donner, composte da 32 membri. George Donner aveva 62 anni, sua moglie Tamsen 44, le loro 5 figlie da tre a tredici anni.
Donner divenne fin dall’inizio il punto di riferimento della carovana che aveva bisogno di un leader. La carovana originale si divise in più gruppi ed alcune famiglie si unirono ai Reed ed ai Donners, scegliendo la via che si rivelò poi più impervia, con un totale di 80 carri.
Rimasti intrappolati sulle montagne, tentarono di costruire dei ricoveri per difendersi dal freddo e quando esaurirono le scorte di viveri, dopo giorni di digiuno, qualcuno propose di fare una lotteria per scegliere chi si sarebbe dovuto sacrificare per divenire cibo per gli altri. Quando i primi cominciarono a morire, il gruppo si decise a mangiarne la carne, avendo solo cura che nessuno mangiasse quella dei propri parenti. Dopo le prime resistenze, tutti cedettero ed acconsentirono a nutrirsi di carne umana.
In California c’erano all’epoca grandi difficoltà nell’organizzare la spedizione di soccorso, in quanto gli uomini validi erano impegnati nella guerra con il Messico. Quando arrivarono i soccorsi, partiti da Sacramento il 4 febbraio, trovarono i superstiti in grave condizione di denutrizione ma ancora vivi. Molti di loro davano segni di instabilità psichica.
I soccorritori trovarono i corpi mutilati di alcuni membri della carovana e videro una persona che trasportava una gamba umana.
Furono rinvenuti altri tre corpi completamente smembrati e consumati.
Sulla stampa apparve la notizia che si diffuse immediatamente in tutti gli stati e fu scandalo. In California l’episodio fu invece letto come emblema dell’eroico sacrificio dei pionieri.
L’area dove la carovana dei Donner trascorse quel terribile inverno divenne così famosa da diventare “Donner Pass”, “Donner Lake” e “Donner Peak”.
16 maggio 2010
Anche oggi giornata di riposo e relax. Miriano mi ha portato in centro a Reno, dove speravamo di vedere un raduno di motociclisti che ci aveva segnalato Diana. Purtroppo siamo partiti tardi e ne abbiamo incrociati molti gruppi sulla strada che stavano già partendo a manifestazione finita. Siamo andati poi in un parco della città, ai confini dell’aeroporto, dove erano esposte auto d’epoca risistemate da amatori. C’erano auto restaurate e riportate all’aspetto d’origine ed auto rielaborate a piacimento del proprietario. Tutte denotavano un grande amore ed una grande passione di chi ci si era dedicato al fine di ottenere un’opera di gradevole aspetto e di geniale fattura. Notevoli le finiture interne e curati i dettagli con minuziosa attenzione. Il risultato era una serie di opere d’arte sparpagliate sul prato, in civettuola attesa di essere ammirate e valutate dai visitatori.
Qui a Reno adesso comincia la stagione delle manifestazioni che si susseguiranno fino ad ottobre. I cittadini non hanno certamente alcuna difficoltà a trascorrere una domenica in città dove mostre, festival e manifestazioni non mancano mai.
É una città viva e molto interessante. Il clima è ottimo e nei dintorni ci sono bellezze naturali di grande interesse.
Nel pomeriggio, in venti minuti abbiamo raggiunto la zona sciistica di mont Rose, a quota 2700 e c’era ancora molta neve. Scendendo poi dall’altra parte della montagna, abbiamo raggiunto il lago Tahoe.
Il panorama dall’alto è splendido e spazia su catene di montagne innevate che si rispecchiano nell’acqua azzurro cielo e tutta l’area prossima al lago è edificata con grande rispetto per la natura. Le sponde del lago sono sabbiose con grandi massi in granito che sembrano essere stati depositati lì dalla mano dell’uomo, tanto appare scenograficamente bello il contesto.
In contrasto con quanto visto appena pochi minuti prima, ovvero boschi ancora innevati, qui c’era gente in costume che prendeva il sole stesa sulla sabbia della spiaggia ed alcuni bambini sguazzavano tranquillamente nell’acqua cristallina.
É un paese meraviglioso, ricco di risorse naturali che sono ottimamente valorizzate da una politica intelligente e lungimirante. Ora capisco la passione di Miriano e Diana che sono arrivati qui nove anni fa e qui hanno deciso di rimanere.
Reno, contrariamente a quanto comunemente si pensa, non è la capitale del Nevada ma solo il capoluogo della contea di Washoe. La vera capitale è Carson City.
Reno è stata la prima grande città ma conta solo 218.000 abitanti, mentre a Las Vegas, l’eterna rivale, ne vivono più di 2.000.000.
É a Reno però, dove è stato aperto il primo casinò del mondo e deve la sua fortuna al gioco d’azzardo, oltre che alla politica liberale dello Stato che ha favorito l’insediamento di gruppi industriali e commerciali di grande livello, attirandoli con agevolazioni fiscali.
Reno è una città intelligente e non per niente viene soprannominata “The Biggest Little City in the World”.
15 maggio 2010
Oggi Miriano mi ha accompgnato alla concessionaria Honda di Reno. L’Africa Twin non è un modello importato in questo paese ma i lavori che devo fare non prevedono la sostituzione di pezzi particolari. La lista è lunga ma sono tutte cose semplici. Cambio dei copertoni, della catena, dell’olio e verifiche varie. Martedì dovrebbe essere tutto a posto, pronta per affrontare i rimanenti 7.000 kilometri. (P.S. ieri ho girato i 25.000 km).
Siamo poi saliti verso Virgina City, una cittadina che ancora conserva il suo carattere pionieristico. Le costruzioni sono quelle originali di oltre un secolo e mezzo fa e vengono mantenute così per attirare i turisti. Nella Main Steet circolano pistoleri con tanto di Colt, cinturone e cartucce. I saloon sono quelli che abbiamo visto in tutti i film sul Far West e le musiche che risuonano per strada sono Country al 100%. Su molte insegne, originali dell’epoca, spiccano nomi tipicamente italiani. Miriano mi racconta che in origine la comunità italiana era consistente nell’area. Virginia city, come la vicina Silver City, è stata per decenni trivellata dai cercatori d’oro prima e d’argento poi. Dalla strada si possono ancora notare i cumuli di materiale scavato e setacciato che denotano la presenza di miniere. L’attività su larga scala è praticamente cessata. Rimane forse qualche nostalgico che ancora si ostina a cercare fortuna. E noi speriamo proprio che la possa trovare.
La bella giornata ha fatto uscire i motociclisti locali che con le loro Harley hanno invaso la cittadina. Sono tutti personaggi particolari, molto pittoreschi. Mi sono sbizzarrito a ritrarne alcune centinaia che facevano avanti indietro lungo la strada principale facendo rombare i loro motori.
14 maggio 2010
Ho lasciato la Valle con una temperatura molto alta. La strada si arrampica in salita fino a 1500 metri e lì fa già fresco. Ho incrociato molte coppie di motociclisti, tutti harleysti e tutti rivestiti di tatuaggi. Come sono strani e diversi da noi enduristi…. Devono averne vendute a milioni, qui negli States. Le moto che circolano al 97% sono Harley. La filosofia di chi le guida è differente dalla nostra, ma tra loro sono proprio tutti uguali. Ne ho incrociati alcuni, a quota 2500, con la neve attorno, in maniche corte e calzoncini. Io avevo freddo con la giacca, non so loro.
Il percorso mi porta in alto, tra foreste di pini e chiazze di neve e poi scende attraversando pianure aride e pascoli verdeggianti. Ogni poche centinaia di metri ci sono campeggi ed una buona parte del traffico è formata da camper o pickup attrezzati. Le indicazioni sono ottime e suggeriscono cosa vedere in ogni parte del territorio che si sta attraversando.
Ci sono molti laghi ed uno in particolare, il Mono Lake, presenta delle formazioni tufacee molto interessanti.
C’erano persone appostate da tre giorni in attesa di cogliere la luce migliore per fotografare questi monumenti naturali che si rispecchiano nell’acqua immobile.
La strada da percorrere per arrivare a Reno è tanta e forse me la son presa troppo comoda. Inoltre non ho fatto i conti con i rigorosi limiti di velocità e così sono arrivato con il buio.
Miriano mi è venuto incontro ed ora sono a casa sua a festeggiare con Diana, Giammi e Carlo davanti ad un buon piatto di spaghetti al pomodoro ed una coppa di vino rosso. Che pacchia.
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13 maggio 2010
Mi sono avvicinato alla Death Valley in punta dei piedi, come stessi andando a trovare un vecchio amico ammalato. Non so perchè mi ha fatto questo effetto, forse la suggestione, le storie lette, i racconti sentiti.
Ho guidato lentamente, osservando l’asprezza e la solitudine della montagna che si apriva davanti a me per poi farmi scendere in un catino, sempre più in basso, fino ad arrivare sul fondo della depressione più profonda dell’America settentrionale, a – 87 metri.
Nella valle non ci sono città, nè paesi, nè gruppi di case. Nella valle non ho visto nè sentito alcun animale, nè di pelo, nè di penna. Quando mi è capitato di fermarmi, la cosa che mi ha colpito di più è stato il silenzio. Nemmeno il fruscio del vento, solo il silenzio, assoluto. Tutto questo in apparenza, perchè in realtà la valle vive.
Mi sono informato e mi è stato detto che nella Valle della Morte sono state individuate e catalogate ben 600 specie di piante e fiori del deserto. Tipologie di piante che si sono acclimatate alle condizioni estreme della valle. Vento, scarsità d’acqua e salinità del terreno hanno richiesto particolari adattamenti.
Anche la fauna sembra sia ben rappresentata, con più di 200 specie di uccelli, quaranta tipi di mammiferi, una quarantina di rettili tra i quali 20 di serpenti. Inaspettatamente, sembra vivano qui anche crostacei e perfino una chiocciola marina. Sono infine rappresentati anche dei pesci, alcuni rari, altri frequenti nelle pozze e sorgenti di montagna.
E l’uomo? I primi coloni che si avventurarono da queste parti, poterono constatare come l’area non fosse libera ma bensì abitata da indigeni Timbisha, poi rinominati Shoshoni e Paiute. Di questi antichi popoli rimane solamente qualche centinaio di rappresentanti, dei quali una cinquantina continua a vivere nella valle. Sono passato a fianco del loro villaggio, costituito da carrozzoni in metallo e case prefabbricate. Mi si è stretto il cuore. Gli Stati Uniti saranno anche la più grande democrazia del mondo ma la loro storia si è abbeverata del sangue dei nativi e del sudore degli schiavi d’Africa. E questo non va dimenticato.
Nel 1849 la corsa dei cercatori d’oro spinse migliaia di poveracci verso questa terra arida e crudele. Nacquero decine di leggende su favolose miniere perdute sulle montagne.
Nel 1849 un centinaio di pionieri con famiglie e carri si inoltrarono nella valle. Passo’ un mese prima che riuscissero a scamparne. Dovettero mangiare i buoi ed abbandonare i carri. La loro epopea divenne una leggenda e diede il nome alla valle.
Geologicamente parlando, la Valle della Morte è una criptodepressione, lunga 220 chilometri e larga circa 40.
Le rocce risalenti a 500 milioni di anni fa, ritrovate sulle montagne, sono di arenaria e quindi di carattere sedimentario.
Preponderante però, per la formazione della valle, è stata l’intensa attività vulcanica, svoltasi principalmente nel Terziario.
Mi sono fermato a Zabriskie Point, celebrato nell’omonimo film di Antonioni. Le rocce che lo formano sono colorate e datano 10 milioni di anni.
La valle costituisce indubbiamente un laboratorio all’aria aperta per geologi e scienziati
Anche se ancora non siamo in estate, qui fa caldo. Nel luglio 2005, registrati con certezza i 54 gradi, la Valle della Morte segna il record storico mai registrato sulla Terra. La piovosità è minima e si registrano precipitazioni annue da 30 a 60 mm.
Non è un posto dove ci si sognerebbe di costruirsi una casetta.
Dei due resort esistenti nell’area, uno era chiuso ed uno era occupato completamente. Ho continuato quindi per altri 40 km, uscendo dall’area del parco, finchè non ho trovato un albergo con una stanza graziosa e qui mi sono fermato per la notte. Sono ancora in un’area desertica ed il silenzio è assordante. Buona notte!!!!
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