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25 marzo 2010

Ancora una volta sono le carte che ci fermano. Alle 10 di questa mattina eravamo pronti a partire. Chiedo in albergo indicazioni per reperire una compagnia di assicurazioni, convinto di poter espletare le pratiche per la polizza di copertura RCT per il Perù in pochi minuti.
La compagnia che ho individuato è la stessa con la quale ho stipulato la polizza in Argentina e si trova a poca distanza. Un inserviente dell’hotel mi accompagna ma, sorpresa (?), la burocrazia ha i suoi tempi. Ritorni alle 4 della “tarde”, mi dicono! A nulla valgono le preghiere e le insistenze.

Nini è già pronto dalle 7 di questa mattina, io ho scritto ed operato sul PC fino alle 9 ma poi mi son vestito di tutto punto, con protezioni e stivali. Comincia a fare caldo.
La mia “passeggiata”, in cerca della Compagnia di Assicurazioni, mi ha fatto percorrere le strade del centro cittadino, intasate da mercati e gente che brulica in un misto caotico di modernità e tradizione.

Ricchezza e povertà. Cravatte e costumi contadini. Negozi di alta moda e bancharelle che vendono 4 pannocchiette spelacchiate e moltissimi lustrascarpe. Sovrana, su tutto ciò, la capillare diffusione di centri internet. Ad ogni piè sospinto c’è una porta o una vetrina che espone PC e consente il collegamento alla rete. Anche il cellulare la fa da padrone. A parte i numerosissimi negozi che li vendono, la cosa più anacronistica mi è sembrata la vista di donne in costume tradizionale, bombetta, trecce e gerla di lana sulla schiena e cellulare all’orecchio.

La Paz di giorno è ancora più impressionante che di notte. Quando alla fine, ormai alle 17, riusciamo ad accendere le moto e scendiamo in strada, ci sembra di scendere nell’arena. Un traffico scatenato ci avviluppa tra le sue spire e ci trascina nella corrente senza possibilità di scegliere la direzione. La situazione mi fa tornare alla mente l’antico gioco dello shangai. Noi siamo due tra quei mille bastoncini.

Non so come ma il flusso ci trascina nella giusta direzione e finalmente imbocchiamo l’avenida principal nella direzione corretta.
Cominciamo a risalire il fianco della caldera in senso inverso a ieri sera. Man mano che si guadagna quota, lo sguardo spazia sullo strano presepio che riveste ogni spazio disponibile. Chissà come faranno a raggiungere le loro case, abbarbicate una sopra l’altra, dal fondo valle fino alla cresta dei monti.

Appena fuori dal “cratere” o “valle” che ospita La Paz, ci si trova a El Alto, città satellite, se possibile più caotica e trafficata della stessa capitale. É la patria delle furgonette Nissan ed altre giapponesi. Sono come formiche e formano un fiume ininterrotto. Sono il trasporto pubblico per eccellenza.

Dopo più di un’ora riusciamo a scrollarci di dosso il traffico che ci ha intossicato con i fumi di scarico, assordato con il suono dei clacson, affaticato per la tensione.
Ci lanciamo verso il lago Titicaca. Le moto stentano a prendere velocità. Poverette, se pensiamo a quanto sono cariche, ai 12000 chilometri percorsi, dei quli circa 2500 su piste e sterratoni, alla quota in cui ci troviamo, alla benzina da 75 ottani ed alla polvere che ancora intasa i loro filtri, si capisce quanto siano brave.

Ormai è sera. L’aria è limpida e frizzante. Sulla nostra destra si staglia contro il cielo blu la Cordillera Oriental, carica di neve. Ecco perchè fa così freddo. I picchi raggiungono i 6500 metri di altezza e sono a 10 o 20 chilometri dalla città.
Davanti a noi un cumulonembo si sta scaricando. Anche questa volta ci va bene ed il vento ci trasporta solamente qualche scroscio d’acqua ed una sottile grandinata.

In vista del lago Titicaca, il più alto lago del mondo, le cui dimensioni sono quelle di un mare, ci fermiamo sulle alture per cogliere il panorama impreziosito dalle ultime luci del giorno che ne fanno risaltare la bellezza. Ci attende un traghetto per attraversare uno stretto braccio d’acqua. É una barcaccia sgangherata con un impiancito in assi dissestate e mobili, sulle quali saliamo con molta titubanza.
Una volta a bordo la moto rimane in un equilibrio instabile e la dobbiamo mantenere puntellata per evitare che si ribalti con il movimento della barca. Nini, che è rimasto a cavallo della KTM, a poppavia del battello, mi informa che la struttura del “barco” si contorce visibilmente all’impatto con le ondine provocate da altri natanti che incrociamo.
Lo scarico delle moto avviene con difficoltà, con l’aiuto dei traghettatori, ma senza conseguenze. Tutto bene pertanto, un’altra esperienza da raccontare agli amici.

Arriviamo a destinazione col buio ed intirizziti, com’è ormai diventata abitudine. Siamo sul mitico Titicaca, culla di antiche civiltà e ricco si storia.
Per cena ricorriamo ad un piatto di tradizionali spaghetti, scotti al dente. Si sa che la quota rende impossibile la cottura della pasta in quanto l’acqua bolle a temperatura più bassa. Io li assaporo comunque. Nini proprio non ce la fa e tenta con del riso in bianco che lascia nel piatto dopo due forchettate. Forse non sta bene?


Annotazioni di viaggio

Alla periferia di La Paz (il cui nome corretto non è, a mio avviso, La Pace ma La Pazza) e qui, sul Titicaca, ho visto i primi ed unici, spelacchiati esemplari arborei (eucalipti di montagna) made in Bolivia.

Notizie accessorie

Errata Corrige. Nel testo ho impropriamente definito La Paz quale capitale della Bolivia. In realtà ne è solo la sede governativa, mentre la capitale indicata nella Costituzione boliviana è Sucre.
Nel 2001 aveva una popolazione di 800.000 abitanti. Non ci sono dati piu’ recenti. Si trova ad un’altitudine media di circa 3.600 metri sul livello del mare. Assieme alla città satellite di El Alto, posta sulle alture prospicenti, a circa 4.000 metri sul livello del mare, che conta circa 700.000 abitanti, La Paz costituisce il nucleo abitativo più popolato della Bolivia.


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24 marzo 2010

Bolivia. Tre giorni di Bolivia sono troppo pochi per poter esprimere un giudizio sul paese e tanto meno sulla gente. Posso solamente riferire quanto ho visto e sperimentato personalmente.

Ieri, come il giorno precedente, ho notato l’onnipresenza dell’esercito. I militari in divisa sono una costante. Caserme e presidi se ne vedono ovunque. É la casta più ricca e potente. Tra il disordine e la sporcizia, le buche e la povertà assoluta, sfilano colonne di militari in divisa con banda e gonfaloni.
Stamattina già dalle sei si udivano inni provenire dalla vicina caserma. Ieri sera, alla garritta, i 3 militari di guardia erano però avvolti in semplici coperte di lana, con in testa il tipico berretto andino fatto dalla mamma. Mi facevano pena, poveri ragazzi. Si vedono spesso anche dei cortei di dimostranti che per una o per un’altra ragione, sempre più sovente scendono in piazza.

La gente è povera, le donne nei loro costumi tipici dai colori slavati e l’immancabile bombetta sono sempre cariche di qualcosa, i bimbi giocano a terra, tra la polvere. Moltissimi soggetti sono affetti da problemi fisici e deformità. Ritengo che la causa sia la consanguineità, dovuta al forzato isolamento.

Poche sono le persone con le quali si riesce a capirsi, pur parlando la loro lingua. La stessa impressione mi è stata riportata da altri viaggiatori. Però, anche nei pueblos più sperduti e più poveri non manca mai il messaggio elettorale. Dai muri sbrecciati, sui quali mai è stato applicato un intonaco nè data una tinta, il grande faccione del candidato alcalde (sindaco) o gobernador, spicca con un sorriso beffardo.

Stamane l’opzione di viaggio prevedeva un itinerario verso Potosi, da farsi in 6 ore tra le montagne fino a 4200 metri di altezza, con panorami incantati ma curve e salite e ghiaia e buche, oppure un percorso in pianura ma con presenza di zone sabbiose, molto insidiose. Abbiamo scelto questa seconda opzione per accelerare l’avvicinamento a La Paz.
Credo sia stata l’esperienza più drammatica di tutto il viaggio. Il primo tratto, di cento chilometri circa, tutta una tole ondulee che faceva vibrare la moto e noi stessi al punto da farci perdere la vista del terreno.
La seconda parte, sempre tole ondulee, ma ricoperta da uno strato di “borotalco” finissimo che ci faceva continuamente perdere il controllo del mezzo.
Va notato che non montiamo più copertoni con i tappi, bensì gomme da misto, poco adatte aquesto tipo di terreno. Ben 3 volte la moto si è intraversata e l’ho tenuta in piedi miracolosamente e non conto le volte che mi son salvato sostenendomi a colpi di gamba.

Quando, dopo 4 ore, abbiamo ritrovato l’asfalto, siamo rinati. Mancavano a quel punto 350 km per La Paz. Il distributore non aveva benzina e c’era una colonna di 100 auto in attesa di un’improbabile cisterna in arrivo. Abbiamo deciso di proseguire. Siamo arrivati a pelo, dopo un’altra ora, ad una cittadina con distributore. Attorno a noi numerosi temporali con un cielo nerissimo ma la nostra direzione ci portava sempre al loro limite. In un solo caso, per 5 minuti, abbiamo corso sotto la pioggia scrosciante.

Iniziava il tramonto, ed eravamo ancora a 80 km dalla capitale. Qui appena scende il sole inizia a fare freddo. Nini mi fa cenno di volersi fermare. Scendiamo dalle moto. Mi si avvicina e vedo che trema tutto, in uno stato quasi convulsivo. Ha atteso troppo, avrebbe dovuto fermarsi prima. Si spoglia per indossare, sotto alla tuta, tutto quello che trova a portata di mano. Abbiamo con noi una boccetta di liquore e tiriamo due bei sorsi. Dicono che in altitudine faccia male bere alcolici ma noi il beneficio lo abbiamo sentito subito.

La notte è nera, il traffico, avvicinandosi alla capitale, diventa intenso. Soprattutto camion. A differenza dell’Argentina, qui non esiste la cortesia e nessuno ci agevola il sorpasso, costringendoci a volte ad annusare lo scarico puzzolente di scarichi scarburati per molti chilometri.

Fa freddo, la strada è deformata. Non vediamo l’ora di arrivare. Già da 50 km di distanza, da un’altura, scorgiamo una linea lunghissima di luci all’orizzonte. É la città di La Paz.

Ci vuole ancora un’ora per giungere alle prime luci della periferia e poi un’altra ora per arrivare nel centro della città. Città? No, nel centro della bolgia più assoluta ed assurda del girone boliviano.
Ci accoglie un traffico indescrivibile. Un groviglio inestricabile di auto e minibus che avanzano a singhiozzo e si sorpassano senza regola alcuna. Scendiamo lungo una larga strada a doppia corsia (a pedaggio) che con larghe spire scende nel calderone della città. Dal basso si vedono le pareti della “caldera” illuminate dalle luci delle case abbarbicate sulla montagna.

Il centro è ancora più caotico ma assume l’aspetto tipico delle città moderne, con luci, negozi, semafori, insegne pubblicitarie. Trovare l’hotel è un’impresa ma finalmente, alle 9 e mezza, ci arriviamo. Domattina scapperemo di corsa. Le moto stanotte sono dietro a solide sbarre di ferro e guardate a vista da una guardia armata.

Annotazioni di viaggio

Sugli altopiani gli spazi che si aprono davanti a noi sono enormi e benchè posti ad altezze vertiginose (siamo costantemente tra i 3700 e i 4000 metri), non sono deserti.

Vivere quassù dev’essere veramente difficile. Eppure lungo ogni strada, ai bordi di ogni pista, magari ad intervalli di mezz’ora, scorgiamo sempre qualche segno di presenza umana. Anche se apparentemente non c’è acqua, sicuramente non c’è benzina, nè legna, non c’è nulla di coltivato, salvo rare eccezioni, ed il clima è molto duro, qualche anima viva la si incontra sempre.
Il pastorello con i suoi lama, la vecchietta con la gerla o qualche operaio in tuta gialla che tenta inutilmente la manutenzione della “statale”.

La gente abita questo territorio con caparbietà, vivendo in piccole costruzioni di un piano e, temo, anche di un solo locale. Sono nella totalità assoluta dei tuguri costruiti in mattoni di argilla essicata al sole, di pochi metri quadrati, tutte uguali tra loro, invariabilmente con il tetto in paglia. Un muro dello stesso materiale ne unisce generalmente 2 o 3, a formare un cortile dove racchiudono le greggi.
Molte sono abbandonate e ne rimangono solo i muri. I tetti crollano, sotto il peso della neve e, mancando gli alberi, non c’è legname per ricostruirli.

Anche i piccoli pueblos che attraversiamo sono impressionantemente poveri. La strada principale è simile ad un campo di motocross, con avvallamenti di mezzo metro e orme di ruote bordate da creste di fango essiccato alte decine di centimetri. E poi strati di polvere che il vento trascina in alto in cortine rotanti.

L’aria rarefatta e pulita consente una visibilità inusuale per noi e tutto sembra lì, a portata di mano, anche se sulla mappa si capisce che la distanza dal punto osservato è invece enorme.

Gli altopiani sono ricoperti da erba di un verde cangiante ed aree brune od ocra. Con la luce del sole, tra l’ombra delle nubi, l’effetto è sorprendente. Mi verrebbe da fermarmi in continuazione per scattare delle foto. In lontananza, una corolla di montagne brulle incornicia in pianoro.


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23 marzo 2010

Abbiamo passato la notte a Uyuni. Le moto hanno girato la boa dei 10500 km.
Oggi ci siamo presi un giorno da turisti. Con un’auto fuoristrada, assieme ad un olandese e due americani, abbiamo fatto un’escursione nel Salar di Uyuni, il più grande e più alto deserto salato del mondo.
Residuo di mari di ere remote, questo altipiano è per 12.000 km2 ricoperto da sale puro, per uno spessore che raggiunge anche i 6 metri.
Ciò che si vede è lo spazio infinito del nulla bianco, nel silenzio assoluto. Anche in questo caso, l’obiettivo della macchina fotografica non riesce a cogliere le sfumature del bianco, rimane accecata e non valuta i contrasti di colore con lo sfondo delle montagne che incorniciano la piana ed il blu del cielo senza una nuvola.

All’inizio dobbiamo guadare delle aree di salamoia ma poi si corre spediti seguendo le numerose tracce che solcano il salar.
Nella stagione delle piogge sarebbe impensabile avventurarcisi. Ci sono delle aree umide appena ricoperte da un sottile strato di sale che sotto il peso di una moto o di un auto si romperebbe, facendo sprofondare le ruote nella melma salmastra.

Anche oggi si percepisce la differenza di solidità del fondo ma siamo con una guida. Visitiamo dapprima un cimitero di treni andini. Solo rottami ma tuttavia suggestivi. Poi una fabbrica di sale, dove tutto viene fatto rigorosamente a mano, infine i luogli di estrazione del sale.
Proseguiamo verso l’interno della desolata landa, fino a giungere ad un basso edificio, adibito ad hotel, interamente costruito con blocchi di sale. Muri, tavoli, mobili, letti, tutto è di sale purissimo.

La meta successiva è un’isola in questo mare di sale e come tale appare ai nostri occhi. L’isola è molto bella e ricca di vegetazione. Costituita però quasi essenzialmente da cactus di proporzioni enormi. Uno di questi, probabilmente il più antico, data 1200 anni di età.

La Bolivia continua a stupirci. A differenza dell’Argentina, qui il paesaggio è più vario ed in poche centinaia di chilometri si possono vedere cose diverse e provare sensazioni diverse……


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22 marzo 2010

L’albergo di La Quiaca, inaspettatamente, era di buon livello. Con l’equivalente di 30 dollari abbiamo dormito, pranzato, cenato, fatto colazione e fatto lavare tuta e magliette varie.

Già ieri avevo visitato l’area doganale e non ci aveva fatto una buona impressione. Stamattina cercheremo di essere lì presto, per poter avere davanti l’intera giornata per viaggiare.

Alle 9 siamo dall’assicuratore. Per compilare 2 bollette con i nostri dati, ci impiega quasi un’ora. Con 22 dollari saremo assicurati per un mese in Bolivia. Naturalmente, adesso che abbiamo il certificato assicurativo, nessuno ce lo chiede.Tantomeno il certificato di vaccinazione. Ieri era stata la prima ed unica cosa che ci avevano chiesto, per poi respingerci.

La dogana apre alle 10,30. Passiamo, uno dopo l’altro, cinque differenti uffici ed in ogniuno chiedono le stesse cose. Il caos regna sovrano. Durante l’attesa abbiamo modo di osservare il passaggio dei boliviani che entrano in Argentina con passo di corsa, in una colonna continua ed infinita ed altri che escono, tornando in Bolivia, stracarichi di merci fino all’impossibile. Uomini e donne, giovani e anziani, tutti stracarichi e tutti correndo. Se penso che qui, a 3600 metri di altitudine, risulta faticoso anche salire le scale, non riesco a comprendere dove trovino la forza per correre così caricati di ceste, cassette, sacchi di tutti i tipi. Probabilmente avranno in bocca un lobo di foglie di coca, come ci ha suggerito di fare il comandante della guarnigione locale.
Le foto non riusciranno a rendere l’idea di quanto abbiamo avuto modo di vedere, sono statiche. Essere lì ad osservare questa povera gente mi fa un po’ vergognare del nostro status. E noi ci lamentiamo perchè le nostre moto sono troppo cariche!!

A mezzogiono e mezzo riusciamo a partire. Ci attendono trecento chilometri di ripio, fino a Uyuni, capitale del “Salar”.
I primi cento km sono un tormento di deviazioni su piste di sabbia e polvere. Non oso pensare a cosa diventerebbe il fondo in caso di pioggia. E’ quasi tutta pista ma dobbiamo pagare il pedaggio e lo dovremo pagare ben 3 volte, in 3 “caselli” (baracche a bordo pista) lungo la strada. Facciamo il pieno con benzina a 75 ottani al modico prezzo, riservato agli stranieri, di un dollaro al litro. Quasi tre volte quanto pagano i locali. Buona, come accoglienza!

A ridosso della frontiera la cittadina è tutto un mercato. Rimango stupefatto nel vedere che quasi tutti i negozi mettono in vendita materiale elettronico. Molti vendono abbigliamento, profumeria ed altre frivolezze. Mi sarei aspettato piuttosto un mercato di verdure, frutta, pellami e cose di questo tipo. Appena oltre il pueblo inizia il nulla.
Ci ritroviamo soli sulla pista, come spesso è successo nel corso di questa viaggio. Ma in questa parte del mondo, così vicina al cielo, non ci sono nemmeno le indicazioni stradali, nè i nomi dei paesi. Chiedere informazioni è quasi inutile. L’interpellato, in quasi la totalità dei casi, non è in condizioni di rispondere. Dev’essere a causa delle foglie di coca che masticano perennemente, oppure è la questione dei neuroni fulminati dall’altitudine. Questo è l’aspetto che più mi impressiona. Spero di essere smentito nei prossimi giorni.
Comunque imbocchiamo una delle due strade che ci troviamo davanti, orientandoci con il sole. Nella seconda parte del viaggio, dopo i primi cento chilometri, la pista inizia ad arrampicarsi sulla montagna e sale, sale………..e sale. Raggiungiamo i 4219 metri slm. La moto arranca ma va. Sui tornanti si mette la prima ed ancora stenta a riprendere. Poi, un po’ per volta, si avvia e prende velocità. Anche la nostra respirazione diventa più faticosa.
Sugli sterratoni che salgono lungo il fianco della valle va tutto bene, sulle curve a gomito e sui tornanti, dove necessita un minimo di impegno fisico, si sente il battito del cuore che accelera e si cerca l’aria. Buche dappertutto e ghiaia.

La cosa peggiore però è la sabbia che si accumula sui tornanti e rende difficoltoso il controllo della moto. E poi la polvere. Quanta polvere. Più di quella mangiata in un mese intero si ripio argentino. Quando incrociamo uno dei rari veicoli che percorrono la pista, la visibilità cala a livello 0 per alcune centinaia di metri e siamo costretti a fermarci.

Le montagne che ci circondano sembrano colline, ma sono tutte oltre i 4500 metri di quota. Corriamo in cresta per alcune ore. Il sole brucia. Lungo il percorso, squallide baracche offrono rifugio ai pastori di lama. Non so come possano vivere qui, ma soprattutto quanto possano vivere.
Ci sono anche dei villaggetti di sette/otto casette, con la loro scuola. Probabilmente sono minatori di qualche compagnia statale.

Il sole cala inesorabilmente e qui, a quattromila metri, sull’altipiano, fa buio presto. La nostra media è bassa. Tranne che in alcuni tratti di sterratone, dove riusciamo a tirare fino a cento km/h, non riusciamo a tenere una velocità sufficiente. Quando il sole si abbassa sull’orizzonte, proprio davanti a noi, la visibilità diviene molto difficoltosa. La visiera impolverata rifrange i raggi del sole e diventa inutilizzabile. Gli occhiali si coprono di polvere anch’essi e mi devo fermare più volte per pulirli.

Cala la notte e siamo ancora a 50 km dalla meta. La strada è tutta una tole ondulee ed è molto pericolosa. Già di giorno, sulla tole, la moto galleggia, perdendo aderenza con il terreno, ma la notte è molto peggio. Un paio di volte si mette di traverso e la tengo con difficoltà. D’altra parte non abbiamo scelta, siamo in pieno deserto. Siamo scesi dai monti e probabilmente stiamo correndo sulla distesa di sale.
Ora inizia anche il vento e la pista si copre di un velo di sabbia (o sale) trasportata dal vento. Non si vede più il terreno. Il paesaggio è irreale. Un velo biancastro scorre sotto le nostre ruote, sospeso a cinquanta centimetri da terra, spettralmente illuminato dall’ultima luce del tramonto che tinge di giallo il cielo sopra la silouette delle montagne che si stagliano all’orizzonte.
Procediamo alla cieca, finchè non ci ridossiamo a delle basse colline che però ci proteggono nuovamente dal vento. Torniamo a vedere, alla luce dei fari, i bordi della pista.
Alle 9 di sera, ormai sfiniti, scorgiamo in lontananza le luci del pueblo. Che visione meravigliosa. Vorrei fare come Cristoforo Colombo, quando sbarcò nelle americhe la prima volta. Ma qui c’e’ troppa polvere……………..


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21 marzo 2010

Stamattina ce la siamo presa comoda. Io avevo comperato delle bandiere di stoffa da cucire sulla giacca ed ho chiesto alla proprietaria della locanda se me ne poteva cucice qualcuna. Non lo avessi mai fatto!! Intanto mi ha chiesto ago e filo, che non aveva. Già questo poteva farmi capire il seguito. Poi le ho spiegato per bene cosa volevo mi cucisse, e dove, e mi sono dedicato ad altre cose. In conclusione ho capito che farò bene ad arrangiarmi. La prima me l’ha attaccata sghimbescia e da tutt’altra parte, rispetto a quanto raccomandato. Fatta togliere e spiegato meglio, stava per cucirla nuovamente fuori posto. Ho messo via tutto e continuerò a cucirmele da solo, man mano che attraverserò i vari confini.

Partiti, la strada ha preso a salire con larghe curve, fino a raggiungere i 3780 metri del passo. Panorama, inutile ripetere, magnifico.

Sull’altopiano, a 3700 metri, abbiamo visto per la prima volta i lama. Carichi di pelo, brucavano a decine sul bordo della strada, senza scomporsi al nostro passaggio.

Arrivati in frontiera a La Quiaca, ed affrontate le prime formalità, eccoci subito nei pasticci. Ci manca l’assicurazione per le moto. Niente paura, in paese c’è chi può risolvere il problema. Ci forniscono le informazioni necessarie ed incominciamo un carosello su e giù per le vie polverose del paese. Paese di catapecchie, con strade in terra battura e buche ovunque. In conclusione: oggi è domenica. Abbiamo dovuto cercare un albergo e sistemarci per la notte.
Da quanto visto e dai molti contatti avuti con gli indigeni, ci vien da pensare che l’altitudine bruci rapidamente i neuroni dei residenti.


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20 marzo 2010

Oggi arriveremo in prossimità della frontiera con la Bolivia. Ci dispiacerà lasciare l’Argentina, dopo quasi un mese di permanenza. L’impressione è di essere qui solo da pochi giorni. Sicuramente porteremo con noi un bellissimo ricordo dei luoghi, così diversi da quelli a noi consueti, e della gente così gentile e disponibile.

Le cittadine che abbiamo attraversato o visitato hanno l’aspetto dei paesi di frontiera, con abitazioni basse e sparse, quasi tutte di semplice struttura. L’impianto cittadino è a Castrum romano, con tutte le strade in quadro delle quali alcune sono a doppio senso di marcia ma quasi tutte a senso unico, con una che va e la successiva che torna, come nella Grande Mela. La circolazione risulta pertanto facile, una volta individuate le microscopiche tabelle con la freccia che indica la direzione obbligata. I primi giorni, ma accade tuttora, abbiamo più volte imboccato il controsenso. I semafori sono quasi invisibili e posti sul lato opposto alla provenienza. Anche in questo caso, i primi giorni ci fermavamo quasi a centro strada, non avendo a terra nessun riferimento e con il semaforo posto oltre l’incrocio.

I pueblos, i piccoli villaggi, sono più poveri ed a volte raccolgono poche casupole sghimbescie, di legno o pietra ed alcune volte di fango. Sono abitati in prevalenza da Indios. Non esiste però la sporcizia e nella loro modestia i centri abitati appaiono ordinati.
Le persone sono speciali. Per tutti, a tutte le età e senza distinzione di rango sociale o razza, gentilezza ed educazione sono d’obbligo. Forse un po’ curiosi ma mai invadenti. La gente saluta e sorride, proprio come da noi… quando chi ti incrocia per strada, si fa venire il torcicollo per non guardarti e perfino in ascensore c’è chi si scruta le scarpe come le vedesse per la prima volta, pur di non alzare lo sguardo. Timidezza? No, io la chiamo maleducazione. Beh, qui non c’è.

Ieri ci siamo fermati cinque minuti a bordo starda, in un piccolo paesino di dieci case ed una scuola. Nini è sceso per recarsi ad un chiosco in cerca di sigarette. Alcuni ragazzini con il grembiule, appena usciti da scuola, stavano camminando lungo la via e si sono subito avvicinati. Hanno chiesto, hanno guardato le moto ma nessuno ha toccato nulla. Delle scolarette erano ferme al chiosco e stavano bevendo una gazosa. Subito una di loro, riempito un bicchiere di bibita fresca, me lo ha porto con un sorriso. Anche da noi sarebbe successo, vero?
E poi l’Argentina è grande, enorme. Tutto è grande, la Pampa, le steppe, le montagne, i ghiacciai, i laghi, le strade, le valli, le portate al ristorante. Ogni cosa ha dimensioni inusuali in rapporto alla nostra normalità.

Gli argentini guidano generalmente bene, sono educati e molto rispettosi dei limiti. Segnalano con la freccia quando la strada è libera, davanti a loro, per consentirci di sorpassare. Il problema è che lo fanno accendendo la freccia sinistra. Le prime volte non capivo e non mi fidavo a sorpassare. Nei paesi dell’Est europeo, i conducenti di camion sono altrettanto disponibili con i motociclisti, ma segnalano con la freccia destra. Ebbene, in un paio di occasioni, vista la freccia a sinistra ho iniziato il sorpasso ma l’auto doveva veramente svoltare a sinistra!!!! Bisogna stare molto attenti.

Gli argentini hanno l’abitudine di dire che nel loro paese “nulla è come dicono che sia”. E questo lo possiamo confermare.

Anche la gamma di offerta di Hotels e ristoranti è la più ampia possibile. Abbiamo trovato di tutto, dall’hotel di lusso (relativamente) da 157 dollari, alla locanda da 16 euro. Per un buon pasto si possono spendere da 5 euro ad un massimo di 30.

Inoltre, in Argentina non abbiamo mai avuto, nemmeno per un momento, la sensazione che le nostre cose fossero a rischio di furto. Non credo sarà così d’ora in avanti, passando in Bolivia, Peru’ e negli altri paesi del centro America. Molti motociclisti che abbiamo incontrato ci hanno allertato sul problema.

Oltre all’Argentina, finora, abbiamo visitato solo la parte meridionale del Cile. Il Cile è diverso, interessante ma più triste, più complicato da vivere e, soprattutto, molto più caro dell’Argentina. Abbiamo pertanto scelto di non rientrare in quel paese ma procedere lungo la Ruta 40, fino al confine nord con la Bolivia.

Anche oggi è stata una giornata speciale. Il panorama maestoso delle montagne di argilla rossa ci ha accompagnato per centinaia di chilometri. Nelle valli scorrevano fiumi di un colore rosa pastello, ricchi di fanghi dilavati dalle alture, anch’esse scolpite ed incise in profondità dalle precipitazioni e dal vento.

Ai lati delle valle, le alture apparivano scure, poi rosse, poi coperte da un leggero manto di verde, quasi fosse muschio, poi di nuovo brulle. Le parti erose rivelavano strati di sedimenti multicolori, dall’ocra al rosso, al giallo, al nero. Pareti strapiombanti spiccavano dalla strada verso il cielo, cariche di massi incastonati, in attesa di precipitarsi a valle con prima pioggia.

Verso sera la strada ha preso a salire e con larghe ed invitanti curve ci ha portato oltre quota 2500, dentro le nuvole.
Sentivo la perdita di potenza della moto che tuttavia ha fatto il suo dovere. Il suono del motore è cambiato, divenendo più ovattato, la risposta all’acceleratore più lenta, ma il suo ron, ron, non ha cessato di farsi sentire continuo, rotondo e rassicurante. Ti voglio bene, vecchia mia, continua così!

Nell’ultima parte del percorso odierno il cielo era coperto. Ci siamo fermati per un caffè ed è iniziata la pioggia. Siamo ripartiti ed è cessata. Qualcuno o qualcosa sicuramente ci protegge. In un mese mai uno scroscio d’acqua, niente vento quando abbiamo attraversato lo stretto di Magellano, sia nell’andata che nel ritorno. Tutto è stato perfetto.

All’imbrunire abbiamo attraversato il Tropico del Capricorno. Sui due lati della strada, maestose montagne sulle cui cime di cresta, illuminate dal sole al tramonto, stavano i saguari, immobili sentinelle svettanti contro il cielo terso.

Ci siamo fermati ad Humahuaca, un pueblo a 150 km dal confine. Abbiamo preferito non arrivare alla frontiera di notte, con il dubbio di trovare o meno alloggio.
Abbiamo girato il paese, che ci era stato definito quale centro turistico, senza troppa fortuna. Alla fine ci siamo dovuti accontentare di un sistemazione piuttosto spartana. C’erano ospiti due coppie di ragazzi argentini, in vacanza con lo zaino. Stavano cucinando l’asado e noi ci siamo uniti a loro. Ci siamo fatti accompagnare in macelleria ed abbiamo acquistato un paio di kg di carne mista, cotta poi sulle braci e mangiata assieme ai ragazzi. Abbiamo chiacchierato per tutta la serata ed è stato piacevole.


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19 marzo 2010

Nei giorni scorsi, parlando con i nostri amici brasiliani, è uscito l’argomento delle vaccinazioni obbligatorie in certi paesi. In particolare ci si riferiva alla Febbre Gialla, particolarmente temuta in Bolivia e paesi del centro America.
Benchè per noi europei non esista un obbligo in proposito, ci è comunque sorto il dubbio che qualche funzionario zelante possa mettersi in testa di esigere il certificato e non farci passare la frontiera con il risultato di dover interrompere il viaggio per almeno 10 o 15 giorni.
Consultati diversi siti e lette alcune guide, abbiamo deciso di proseguire, sperando di non incappare proprio in quel tal funzionario.

Oggi però abbiamo voluto fare un tentativo. Ci siamo recati all’ospedale della cittadina e raccontato la nostra storia e le nostre necessità. In breve, siamo usciti con i nostri due bei certificati che ci dovrebbero consentire di transitare indenni le varie frontiere.

Mentre aspettavo che il medico mi redigesse il papiro, osservavo dei bambini cui venivano praticate le vaccinazioni di rito.
Una bambina mi ha particolarmente colpito. In braccio alla mamma osservava con gli occhioni sgranati dal terrore, l’ago che l’infermiera tentava di infilarle nel braccino. Il pianto devastante e le urla della piccola mi hanno fatto venire un groppo in gola. Ho ringraziato il medico e sono uscito ma per alcuni minuti non mi è stato possibile proferire parola. Mi ero commosso. Starò invecchiando?

Questa operazione ci ha comunque ritardato la partenza. La meta programmata per oggi sarebbe stata a 650 km più a nord del punto di partenza.
Ma la Ruta 40 non si è smentita nemmeno oggi. Dopo due ore di bella strada asfaltata, rieccoci sul ripio, in salita, tra mille curve.
La media è scesa naturalmente a livelli assai ridotti e così abbiamo deciso di fermarci a Cafayate. L’hotel che abbiamo trovato è graziosissimo, in stile messicano.
Domani dovremmo arrivare sul confine con la Bolivia. Stasera mi sono cucito sulla giacca la bandiera della Bolivia. Chissà, potrebbe tornare utile………….


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18 marzo 2010

Lasciata Mendoza e la sua operosa provincia impegnata nella raccolta dell’uva e produzione dei suoi ottimi vini rossi, ritorniamo in pieno deserto.
Non più traffico, nessuna coltivazione. Solo sterpaglie e sabbia. La strada ritorna a srotolarsi in quello che Nini definisce “il luogo dei sauridi e dei serpenti”.

Corriamo paralleli alle propaggini della catena andina. I monti sono molto colorati e sullo sfondo il cielo è terso e macchiato da candide nubi.

Dopo un paio d’ore la strada si dirige verso i rilievi e dopo poco si inerpica tortuosa lungo una stretta valle. Con pochi, stretti tornanti, si arrampica sul fianco della montagna, lasciando in basso l’alveo del torrente che scorre in un canyon suggestivo.
La strada è molto stretta ma il traffico è nullo. Le rocce assumono forme grottesche dai colori cangianti. D’improvviso mi ritrovo in Arizona. Il colore rosso delle formazioni di arenaria con grandi massi occlusi e cavità scavate dall’acqua, mi fanno rivedere luoghi ed esperienze già vissute.

Percorriamo la costa del monte per più di un’ora, a velocità ridotta, un’occhio alla strada ed uno al panorama che si rivela nuovo e sorprendente dopo ogni curva. Oltre il passo, da un piccolo spiazzo, si riesce ad ammirare la valle sottostante che si apre nuovamente perdendosi in lontananza. Colori di ogni sfumatura di verde, l’azzurro del fiume che scorre sinuoso, il rosso delle rocce ed il blu intenso del cielo. Questi i colori dominanti che eccitano la fantasia e danno nel contempo una sensazione di libertà.

Scesi a quote più basse, la strada percorre, infinita, una pianura degradante dai monti verso valle. Il terreno è di sabbia e graniglia sciolta ed innumerevoli sono gli alvei asciutti dei torrentelli che si riversano a valle scendendo dalle alture. La strada li rispetta tutti. L’unica difesa infatti, da una inevitabile e continua erosione, è stata quella di seguire la natura rendendo possibile all’acqua il passaggio sopra la carreggiata. Tale e tanta dev’essere la quantità d’acqua che rienpie questi rii in caso di pioggia, che a nulla sarebbero serviti ponticelli o tombinature. L’ingegneria stradale argentina ha pertanto preferito adeguare la livelletta stradale alla conformazione del territorio. Il risultato? Un continuo saliscendi, con l’impressione di essere diventati degli yo – yo. Ai lati delle cunette, rosse di fanghiglia, si accumulano i detriti spazzati dal servizio di manutenzione. appena più a valle le tracce dell’erosione.

E su tutto questo, siamo ancora una volta soli. Su di noi il sole è a picco e fa molto caldo. Di tanto in tanto ci fermiamo per riposare. Dove? Nel bel mezzo della strada. Tanto ci siamo solo noi………….

Ieri, a Mendoza, siamo andati a cercare un rivenditore di pneumatici. Abbiamo girato in 4 posti differenti e sempre qualcuno si è reso disponibile per accompagnarci. Alla fine siamo caduti su un covo di Harleysti…….che però avevano le gomme. Nel loro antro apparivamo decisamente fuori luogo ed io sbirciavo Nini……….e sogghignavo.

A meno di cento chilometri dalla meta, finalmente ci fermiamo per mangiare qualcosa. Abbiamo girato due paesi, distanti tra loro quaranta km, prima di trovare un locale aperto. Mangiamo e ci riposiamo, tanto manca meno di un’ora all’arrivo.

Dopo due giorni di asfalto bello, pulito e diritto, ci siamo abituati a medie discrete.

Ripartiamo e……..la Ruta 40 non si smentisce. Ancora una volta, girato l’angolo, ecco la sorpresa. Ci inoltriamo tra basse collinette che man mano crescono di altezza e cambiano di colore, virando al rosso aranciato. Dietro ad una curva un saguaro!! Un saguaro qui? Ma prima, quando parlavo di Arizona non pensavo a tanta somiglianza. Eppure eccolo lì, in tutta la sua bellezza ed altezza. Rallento. Eccone un altro ed altri ancora. Poi improvvisamente l’asfalto si dilegua e si trasforma in ripio!!! Ah, la Ruta 40!!!

Ci inoltriamo cauti sullo sterrato. Curva dopo curva riprendiamo la mano ed aumentiamo la velocità. La strada si snoda sul fondovalle e si insinua tra i monti di arenaria rosso mattone. Lo scenario è suggestivo e ci affascina.
Io scatto delle foto, ben coscente che non renderanno minimamente giustizia a quanto stiamo vedendo. Il ripio grigio e sassoso cambia tonalità e consistenza, divenendo rosso e sabbioso.

Il percorso comincia ad inerpicarsi in quota, la strada si restringe e presto diventa un viottolo sassoso. Mi viene il dubbio di aver sbagliato qualcosa. Questa dovrebbe essere una strada statale di grande traffico. Invece eccoci su un sentiero che mi ricorda la strada delle gallerie del monte Pasubio. La media scende a livelli piuttosto bassi. Ci fermiamo spesso, per fotografare ciò che ci circonda.
Il panorama è talmente suggestivo che cerco con lo sguardo gli indiani e John Wayne, nella fantastica sceneggiatura del film Ombre Rosse.

Quanto stiamo vedendo vale il viaggio. La strada si inerpica fino al passo, poi scende sinuosa e stretta fino al fondovalle. I muri a secco che la sostengono denotano l’età che hanno.

Incrociamo fortunatamente solo un’auto e poi siamo fuori, nuovamente sull’asfalto. Il tutto per ricordare che la Ruta 40 va rispettata e bisogna guadagnarsela, chilometro dopo chilometro…………..


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17 marzo 2010

Lasciato San Carlos di Bariloche, dopo 200 chilometri abbiamo abbandonato i monti della cordillera e ci siamo inoltrati nuovamente nella Pampa sconfinata. Tra un paese ed il successivo non c’è nulla, per centinaia di chilometri. In 2 giorni ne abbiamo percorso 1500, tra il nulla….

Anche la temperatura è cambiata e dai quasi zero gradi siamo passati ai 40. Una bella differenza no?
Fin che si corre va bene, ma quando si rallenta o ci si ferma, ci si inonda di sudore. La Pampa cessa di essere sterile e deserta in prossimità di San Rafael, dove comincia un’agricoltura intensiva. Da qui e fino a Mendoza è tutto un susseguirsi di fazendas che possiedono estensioni enormi di terreno coltivate a vigneto, uliveti ed altro ancora. Stiamo rientrando nella “civiltà”.

Abbiamo percorso dei tratti di notte, anche se a me proprio non piace. Ho alzato spesso gli occhi al cielo. Che bel cielo!!!!!!!!!!!

Ora vi racconto qualcosa sulle costellazioni australi.
La volta celeste dell’emisfero boreale colpisce per la grande abbondanza di stelle luminose e di fondo, rispetto al nostro cielo.
Sembra quasi che tutte le stelle siano più brillanti di quelle che solitamente ci vien dato di osservare alle nostre latitudini. Ciò vale lungo la striscia della Via Lattea, mentre nelle altre parti della calotta celeste sono al contrario più rari i punti luminosi riconoscibili. Unica eccezione la presenza di due macchie molto estese, le due Nubi di Magellano. Vicine alla Via Lattea ma esterne alla stessa.

L’occhio corre alla ricerca dell’Orsa Maggiore, inutilmente.
Allora ricorro a quanto letto nei libri di astronomia o più banalmente in alcuni romanzi di Wilburn Smith, quando cita la Croce del Sud.
Cerco e noto un gruppo di stelle molto luminose, vicine tra loro. Due di queste, le più luminose, formano una coppia, mentre ad ovest un secondo gruppo di stelle forma una croce quasi perfetta. Questo secondo gruppo è in realtà la costellazione della Croce del Sud che oltre a permettere di individuare l’allineamento del Sud polare, rappresenta anche un simbolo, tanto da apparire nelle bandiere di grandi paesi di questo emisfero, come Australia e Nuova Zelanda.

Tuttavia, l’individuazione del polo sud celeste, non è diretta coma da noi con la Stella Polare. Necessita individuare la retta che parte dalla stella più a settentrione, attraversa quella più meridionale e bisogna prolungarla per 5 volte in quella direzione, finchè lo sguardo non cade in una zona dove poche e deboli stelle costituiscono la costellazione dell’Ottante. Avremo così individuato il riferimento che indica il Polo Sud.

A ovest, staccata dalla Via Lattea, brilla una stella giallastra, isolata e molto luminosa. Si tratta di Canopo, la seconda stella più brillante del cielo, visibile, bassa sull’orizzonte, dalle isole siciliane di Linosa e Lampedusa.

Per oggi è tutto, sono stanco morto e… tutto sudato nonostante la doccia appena fatta. Buonanotte…………………………….


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16 marzo 2010

Uscendo da Bariloche si scorre lungo il lago, fino ad attraversare il ponte che scavalca l’emissario.
Questa mattina il panorama appare di una bellezza straordinaria. Il lago è molto grande ed arriva oltre la frontiera, ben dentro il territorio cileno.

Lungo la strada scorgo il campo di golf e l’aeroclub. Rallento per lanciare uno sguardo all’interno e scorgo la sagoma di alcuni carrelli di alianti.

Sono particolarmente interessato, in quanto pratico con regolarità questa disciplina e so che qui ogni anno, durante il nostro inverno, alla normale attività del club locale si aggiunge quella organizzata da piloti europei che vengono in questo paradiso del volo a vela per tentare di battere records di distanza. L’orografia del luogo e la particolare forza e direzione dei venti dominanti creano la situazione ideale al formarsi del fenomeno dell’onda, riconoscibile dall’occhio esperto per la caratteristica forma lenticolare delle nubi che ne denotano la presenza.
L’onda consente di salire rapidamente fino a quote di 7/8000 metri e lanciarsi poi, mantenendosi nella parte ascendente e passando da una formazione all’altra, a velocità molto elevate lungo la catena montuosa, percorrendo anche 2000 chilometri in un sol giorno.

Da quando sono in Patagonia non faccio che osservare il cielo. Il suo colore, la limpidezza e le formazioni nuvolose che vi si formano in continuazione, sono le più varie ed interessanti che mi sia mai capitato di osservare in un solo luogo e nella stessa giornata. Spettacolari sono gli sfilacciamenti dei cirri d’alta quota, stirati ed allungati dal vento, sempre presente.

La strada si srotola con curve sinuose tra valli ricche di boschi e fiancheggia laghetti verde smeraldo. Dall’acqua sale una nebbiolina che rifrange la luce ancora bassa del sole nascente. Il colpo d’occhio, ancorchè fugace, appaga.

Mi piacerebbe fermarmi per scattare qualche fotografia ma la meta che ci siamo prefissata oggi non ce lo consente. Sia noi che gli amici brasiliani, Ricardo e Renato, dobbiamo cercare di percorrere più chilometri possibile. Loro perchè in 5 giorni devono rientrare a San Paolo in Brasile, percorrendo 4000 chilometri e noi perchè abbiamo deciso di accelerare la marcia verso la Bolivia.
Oggi, dopo gli ultimi 400 chilometri di montagna, percorsi assieme, le nostre strade si dividono. Sono trascorsi ormai 15 giorni dal nostro incontro e sono stati giorni piacevoli. Sembra impossibile come sia facile familiarizzare con persone mai viste prima ma con una stessa, grande passione.
Abbiamo conosciuto altri motociclisti, tedeschi, americani, messicani. Con tutti c’è stato un feeling immediato, ci siamo scambiati dati ed informazioni e tutti si son dati disponibili per accoglierci ed ospitarci nei loro Paesi.

Oggi abbiamo salutato Ricardo e Renato con un po’ di commozione e tristezza. Abbiamo augurato loro e loro a noi “buena suerte” e siamo andati, noi verso nord e loro verso est. Chissà se ci rivedremo.

Dopo 870 chilometri ci siamo fermati a Santa Isabel, sulla ruta 151. Per Mendoza ne mancano ancora 500. Li percorreremo domani………..


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