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12 giugno 2010

Devo essermi addormentato con il libro di Jack London, “White Fang” sul viso.
Il temporale di ieri sera è stato violento ed ha rovesciato sulla foresta una quantità d’acqua impressionante. Stamattina le strade erano piuttosto malandate, con rivoli d’acqua e pozzanghere ovunque. Nelle zone dove il fondo è argilloso, i camion che sono passati per tutta la notte hanno creato solchi profondi ed è difficile procedere senza pneumatici tassellati. Ho provato a rimanere sui lati, fuori dalle orme delle ruote ma è ancora peggio. Mancano comunque solo 100 km al fiume Yukon e da lì altri 230 per Fairbanks. Il cielo continua a gocciolare ed io sono bardato con tuta e stivali. Davanti a me si muove qualcosa. Rallento e mi avvicino cercando di far meno rumore possibile. Un branco di alci sta attraversando la strada e gli ultimi del gruppo stanno già sparendo alla vista. Quando arrivo alla loro altezza, vedo che stanno seguendo un sentiero che entra nel bosco e poi sfocia in una radura piuttosto ampia. Non posso perderli di vista. Un attimo di indecisione e poi devio sul sentiero entrando tra gli alberi. Il fondo è buono e non dovrei aver problemi a seguirli. Spero che si fermino a brucare l’erba della valletta e invece no, si girano a guardarmi e poi continuano ad inoltrarsi lungo il sentiero. Non sembrano spaventati, anzi, piuttosto curiosi. Alcuni di loro si girano, come per invitarmi a seguirli. La stradina scende verso un torrente e mi rendo conto troppo tardi che si è fatta stretta e scivolosa. Per di piu’ sono in leggera discesa. Mi fermo a pensare. Il fondo è sconnesso e non riesco nemmeno ad estrarre il cavalletto laterale. Provo a spingermi indietro ma scivolo. Non mi rimane che procedere con cautela e trovare uno slargo dove potermi girare. Gli alci intanto sono spariti. In che guaio mi sono cacciato! Procedo lungo una delle tracce, con le gambe pronte a trovare l’appoggio in caso di necessità. Sul fianco scorre un torrente carico d’acqua color caffelatte. Trascina con violenza dei massi che si sentono rotolare tra la schiuma biancastra. Attormo a me, oltre al rumore dell’acqua, non si sente altro. Procedo per qualche centinaio di metri ma non trovo nulla. Il sentiero s’è fatto pietraia e dopo una curva a gomito mi trovo davanti ad una frana che ancora scarica fango e pietre. Rimango immobile ed impotente a guardare mentre la marea di terra e acqua si allarga lentamente verso di me. In pochi secondi la ruota anteriore è avvinghiata dal fango e così i miei piedi. Tento di scendere ma incespico e cado pesantemente e la moto sopra di me. Mi libero con fatica e tento di riguadagnare la parte di sentiero ancora asciutta. Come alzo gli occhi vedo una sagoma pelosa che esce dal sottobosco, dall’altra parte della frana. Un grizzly!!
E adesso cosa faccio, dove vado? Si ferma e mi osserva. Devo rimanere calmo e forse se ne andrà. E invece si alza sulle zampe posteriori, spalanca una bocca enorme, rettangolare, nerissima ed emette un grugnito terrificante. Mi guardo attorno, disperatamente cerco di trovare qualcosa con cui difendermi ma non vedo nulla. Sono ancora imprigionato con i piedi nel fango. L’orso si limita a guardarmi e non si muove. Sto per lasciarmi andare al panico quando sento un latrato alle spalle ed una voce biascicata che dice – don’t worry, it’s a good boy-. Mi giro di scatto. Un vecchio ed un cane stanno venendo dalla mia parte, lungo il sentiero. Ehi, amico – grido io con la voce strozzata – corri, fai qualcosa. E mi rigiro per tener d’occhio l’animale. Il cane abbaia ma non sembra incattivito, il tono pare piuttosto festoso. L’uomo entra nel fango e mi viene vicino. – Non preoccuparti – mi ripete, è il vecchio Sim, è un amico, sta giocando. – Ma come – dico io, è un grizzly. Non so che fare, ma il vecchio sembra sicuro del fatto suo. Solo ora mi accorgo che ha la faccia sfregiata da una profonda cicatrice che gli corre dall’occhio sinistro fino alla bocca che quando parla si torce in una smorfia. Grida qualcosa all’orso che emettendo una sorte di grugnito si gira e se ne va. L’uomo entra nel fango e mi prende per le spalle strattonandomi per aiutarmi ad uscire. – Vieni – mi dice, – alla moto penseremo domani, ora segui me. Ti ho visto passare davanti alla mia casa e non ti ho più visto tornare. Sapevo che ti saresti messo nei guai. Qui la terra, dopo la pioggia, si muove sempre ed il sentiero è ormai chiuso da anni.-. Il cane viene ad annusarmi e mi fa capire che non gli dispiacerebbe una grattatina. Lo accontento e lui si struscia sulle mie gambe infangate e sembra soddisfatto. Il vecchio si chiama John e quando arriviamo alla sua capanna di tronchi d’albero, capisco che dev’essere qui da anni, a vivere come un eremita. Attorno alla casa si sono cataste di lattine di birra e bottiglie, un ceppo con un’ascia piantata e montagne di legna spaccata, pronta per l’accatastamento. Dal camino esce un filo di fumo e nell’aria si respira odore di bacon. Entriamo. Il pavimento è in terra battuta. Il cane, si chiama “Mu”, corre in un angolo, sopra ad un giaciglio di paglia secca. L’interno è buio e i tronchi sono anneriti dal fumo. L’aria è pesante ma non sgradevole. Su tutto aleggia il profumo della carne messa a rosolare al fuoco di un grande camino di pietra. Mi invita ad accomodarmi su una sedia ed a togliere i vestiti fradici ed infangati. Va al caminetto e scopre una grande pentola che non avevo ancora notato perchè si confondeva con il nero di fondo. Con un mestolo estrae una brodaglia che mette in un piatto e me la porge. Sembrano fagioli e cipolle, fumanti. – Mangia – mi dice – devi aver preso una bella paura e questo ti farà bene. Io ho già mangiato. E così dicendo si prende una sedia, la gira, e vi si siede a cavalcioni mettendosi sul lato del tavolo. E comincia a raccontarmi di quando è venuto qua in cerca di lavoro, come boscaiolo. Di quando aveva trovato qualche grammo di polvere d’oro nel torrente qua sotto e di quando aveva avuto quella zuffa, giù in paese ed aveva rimediato quella brutta ferita. Da quel momento non s’era più mosso da qui. – E l’orso? – gli chiedo. Sta per rispondermi ma odo un rumore ed apro gli occhi. Ma che brutto sogno……………


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Femmina di alce

Itinerario del 11 giugno 2010

Itinerario del 11 giugno 2010

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11 giugno 2010

Parto verso le 11 di mattina. Poco prima sono arrivati al campo due motociclisti per tentare di far colazione. Poi sono partiti verso sud. Il tempo è bello e la strada è buona.
Oggi il percorso sarà rivolto a sud, per la prima volta dopo mesi. Tranne in alcuni tratti, particolarmete bagnati o mal inghiaiati, riesco a tenere una buona velocità. A metà strada tra Deadhorse e Coldfoot incrocio Mick, il ragazzo irlandese che avevo conosciuto giù, nello Yukon. Rimaniamo a chiacchierare per un po’, mi racconta di aver visto due motociclisti caduti sulla strada su quei tratti di ghiaia sciolta. Ripartiamo nelle due direzioni opposte, ripromettendoci di sentirci ad Anchorage.

Percorro ancora un centinaio di chilometri e vedo un ragazzo in bicicletta, carico di borse. Mi accosto e ci salutiamo, poi ci fermiamo sul bordo strada. Si chiama Matt, è Canadese ed ha appena iniziato il suo viaggio che lo porterà, in un paio di anni, a percorrere in senso inverso il mio stesso itinerario. Ha ventuno anni e tanto, tanto coraggio. Non sa mai se arriverà e quando ad un centro abitato, non ha difese per il maltempo e per i grizzly si è provvisto di spay urticante. Se non è coraggio questo!!! Gli fornisco tutte le informazioni di cui dispongo su dogane, luoghi e genti che incontrerà. Poi ci lasciamo ma siamo già amici. Penso che lo risentirò presto via mail.

A metà strada il tempo si guasta e mi fermo per indossare tuta e stivali di gomma. Il vento però soffia forte e quando termino di vestirmi il cielo torna ad essere pulito.
Altre 2 ore di strada, in totale quasi 8 ed arrivo a Coldfoot. Qui rifaccio il pieno, restituisco la tanichetta che mi era stata prestata ed incontro numerosi motocisti che si sono fermati per rifornirsi. Questa è una tappa d’obbigo per chi transita nei due sensi, non ci sono altre stazioni di servizio per centinaia di chilometri. Mangio una barretta di cioccolato e riparto con l’idea di arrivare sul fiume Yukon e ridurre così la tratta a rischio, da percorrere in caso di pioggia.

Poco prima di me sono partiti anche altri bikers.La strada è scorrevole e dopo un paio d’ore li ritrovo in un’area di sosta. Ripartiamo assieme. Si può correre senza problemi, non c’è polizia da queste parti. Mancano ancora un centinaio di km per arrivare al fiume Yukon, quando il cielo comincia a farsi scuro e minaccioso. Tuoni e lampi davanti a noi. Decidiamo di fermarci e trovare un posto per accamparci. Giusto il tempo per individuare uno spazio tra gli alberi, scaricare e montare la tenda e cominciano i goccioloni di pioggia.Per tutto il tempo nugoli di zanzare hanno pasteggiato con il mio sangue. Ho tenuto sempre il casco e i guanti per ridurre la superficie di pelle esposta ma sono riuscite comunque a pungermi.
La pioggia scende violenta ed il cielo è squassato dai tuoni. Per fortuna il tutto dura solo una mezz’ora e poi smette. Il brontolio dei tuoni si allontana e riesco ad uscire nuovamente all’aria aperta. Poco prima che si scatenasse l’inferno, sono arrivati alcuni van e dalla parlata delle persone capisco che sono dell’est europeo. Ci salutiamo e mi invitano per un brindisi. Sono Cechi e mi offrono una birra, due bicchierini di tequila, un’altra birra (che non bevo) ed una bella salsiccia appena tolta dal fuoco. Sono molto gentili ed allegri. Sono molto diversi dagli americani e mi fanno sentire un po’ a casa. I due bicchierini e la birra mi fanno subito effetto. Mi ritiro nella mia tenda e penso che mi farò una bella dormita. Buonanotteeeee.


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Arrivato in cima – Deadhorse


10 giugno 2010

Mi son svegliato tardi, anzi no, sono rimasto a dormicchiare fino a tardi. Poi con calma ho smontato la tenda e caricato la moto. Dopo i soliti controlli di rito, ho preso la strada che porta sulla spiaggia. Ho percorso alcuni chilometri tra i numerosi cantieri del centro petrolifero, tra distese infinite di attrezzature e macchinari, su strade fangose e difficili, perennemente ma inutilmente in manutenzione.
Nulla da fare, la zona è off limits. Per accedere alla costa bisogna prenotare un passaggio sul bus dell’albergo (due tour per giorno, uno alle 7 di mattina ed uno alle 17), ottenere il pass e pagare 45 dollari. Mi sono ovviamente rifiutato. Non intendo assoggettarmi a questa gabella. Non ho percorso 33.000 km per poi arrivare nel punto più alto a bordo di un bus. Fa niente, fin qui ci sono arrivato in moto e per me va già bene così. Faccio il pieno nell’unico distributore (una pompa in un cortile, senza alcun cartello, difficile anche solo da individuare) senza vedere anima viva. Per fortuna la cassa automatica accetta la mia VISA (non sempre è stato così nelle stazioni di servizio americane). Poi dirigo verso il Deadhorse Camp, un prefabbricatone da cantiere adibito ad albergo. La stanza è pulita ed accogliente, i servizi sono in comune e c’è una specie di mensa. Una notte, un hamburgher, una cena (mah), una colazione, il tutto per la modica cifra di 245 dollari. Altrochè Sheraton o Hilton a 5 stelle.

Passo la giornata scrivendo, scaricando video e foto ed approfitto per lavare tutte le mie cose nella lavanderia del piano di sopra. Una giornata di riposo non guasta. Dalla finestra vedo lo strato di ghiaccio che mantiene ancora i 2 metri di spessore.
Quassù vivono e lavorano tra le 15 ed le 20 mila persone. Ce ne sono paradossalmente di più in inverno che in estate, in quanto nella stagione calda la tundra si trasforma in un acquitrino intransitabile. In inverno, invece, i numerosi e potenti mezzi aprono piste ovunque sulla neve, rendendo accessibili tutte le aree di perforazione. Ovviamente rimane il problema del freddo, in quanto la temperatura può raggiungere anche i 68 gradi sottozero, gli uomini lavorano su turni brevissimi e le macchine devono rimanere con il motore acceso H24. La solita, semplice vita di cantiere!!!


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Ultimi chilometri – Arrivo a Prudhoe Bay








Itinerario del 9 giugno 2010

Itinerario del 9 giugno 2010

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9 giugno 2010: Prudhoe Bay, meta finale di questo viaggio dall’estremo sud all’estremo nord

Non c’è mai stato il buio, questa notte. Ogni tanto aprivo un occhio per cercar di capire se piovesse oppure no. La pioggia potrebbe essere l’unico impedimento lungo la via per Prodhue Bay. Sono gli ultimi 750 kilometri con prua a nord.

Di questo tratto di strada/pista, ne ho sentito parlare in tutte le maniere. Ho letto resoconti di viaggio, ho guardato dei video. Sembra che la prima parte, da Fairbanks fino a Coldfoot (il nome rende già bene l’idea di cosa ci si può aspettare), non presenti difficoltà. Il secondo tratto invece dovrebbe essere tutto in sterrato ed oltre le montagne, lungo la North Slope, la situazione potrebbe essere molto difficile, oltrechè variabile. Tutti raccomandano l’uso di pneumatici tassellati ma io monto delle gomme da misto e non intendo certo cambiarle per fare queste poche miglia. L’importante è che non piova. Le previsioni meteo sono contrastanti ma io terrò in considerazione solamente quelle che assicurano il sole.

Il mio programma prevede di coprire il percorso in due tappe. La prima, relativamente corta, fino a Coldfoot. Sono solo 330 km e pertanto me la prendo comoda. Sta piovigginando ed aspetto, sperando che il cielo si apra. Niente da fare. Alle 11 comincio a vestirmi ed indosso anche stivali e tuta da pioggia. Parto dopo mezz’ora, vestito come un palombaro. Piove e piove e piove. Entro nella zona delle miniere d’oro. Sarebbe possibile compiere la visita ad una di esse, con un trenino che ne percorre le gallerie. Entro nel piazzale e mi trovo davanti ad una quantità tale di pullman di turisti che giro la moto senza nemmeno fermarmi.
In tutta l’area la toponomastica ricorda i nomi più classici dei romanzi scritti e delle pellicole girate sull’epopea dei cercatori d’oro.
La strada si srotola lungo pendii e vallate verdeggianti, entro foreste fittissime i cui alberi sono però più piccoli ed esili.
Man mano che si procede verso nord, la vegetazione decresce e sempre più spesso noto ampie zone di alberi morti e vaste radure desolate, dove rimangono fuori dall’erba solo monconi di tronchi e qualche cespuglio.

Sul lato della strada, procedendo a zig zag, corre il tubo dell’oleodotto che trasporta il petrolio di Prodhue Bay fino ad Anchorage. É un’opera colossale e la strada che sto percorrendo è nata proprio a seguito della scoperta del petrolio, lassù, dove sto andando.
D’un tratto l’asfalto termina ed il fondo stradale divento uno sterrato. Ghiaietta sciolta ma tutto sommato si procede bene. Devo prendere le misure. Dopo tanto correre sull’asfalto è necessario “sentire” la moto. Tiene bene e dopo poco la velocità torna ad essere quella di prima.
Non piove più e le nuvole si stanno diradando. Il sole comincia a fare il suo lavoro e la temperatura sale. Ormai non c’è più nessun paese, nemmeno un piccolo gruppo di case eppure ci sono sempre le aree di sosta dotate di servizi igienici, ci sono i cassonetti per i rifiuti ed è sempre tutto pulito.
Ogni tanto ritorna qualche tratto di asfalto, poi nuovamente sterrato. Il fondo è di base argilloso e credo che con la pioggia potrebbe davvero diventare difficile e pericoloso.
Non si vedono più nemmeno i camperoni con macchina al seguito, solo camion, enormi, velocissimi, carichi di macchine operatrici o cisterne o chissà quali diavolerie da petrolio.

La natura è sempre più selvaggia. Ormai si vedono solo uccelli acquatici e corvi. Ora la scarpata scende verso il mitico Yukon River, protagonista di mille storie vere e di celluloide. É molto largo ed io mi sento piccolo piccolo.
Passo sul ponte e mi fermo a guardare le sue acque che mi scorrono sotto. Ormai fa caldo e mi fermo all’unico punto di ristoro tra Fairbanks e Coldfoot. Ci sono 24 gradi e mi tolgo la tuta ed alcuni altri strati. Il solito hamburgher, riempio il serbatoio con una benzina che diventa sempre più cara man mano che ci si avvicina al pozzo di estrazione della materia prima e riparto. La segnaletica è sempre perfetta ed ogni stradina, ogni fiumiciattolo sono indicati con il loro nome. Mi risulta pertanto facile fare il punto sulla mappa. Il GPS invece non riporta nessuna informazione utile, in questa parte del mondo, ma si limita a registrare la traccia.

Mi fermo spesso, tanto il sole è ancora alto. A volte, attraversando un ponte, vedo un colore particolare dell’acqua o il ghiaccio che ancora resiste alla corrente o qualche uccello che nuota e non posso che fermarmi e tornare indietro.
Quando tolgo il casco vengo però assalito dalle zanzare che in molti casi mi perforano le mani fino a fare uscire gocce di sangue.
Il ghiaccio qui è ancora molto spesso, sebbene nelle ore più calde la temperatura raggiunga valori inaspettati di oltre 24 gradi. Ci vorrà tutta l’estate per scioglierlo.

Arrivo a Coldfoot che sono appena le 18. Per fermarmi qui mi sembra ancora presto. Il sole è allo zenit, fa caldo. Il posto sembra più un accampamento di zingari o un cantiere. Polvere, rumori e camion che vanno avanti e indietro. No, non mi voglio fermare qui. Devo fare il pieno di benzina. Questa è l’ultima pompa prima di Prodhue Bay e mancano 250 miglia. La mia autonomia mi consentirebbe di arrivarci appena appena, ma solo se andro’ piano e non ci sarà molta salita. Meglio non rischiare. Devo trovare una tanichetta, una bottiglia, qualcosa che possa contenere almeno almeno 3 litri di benzina da scaricare subito nel serbatoio, dopo i primi 50 chilometri, appena s’è creato uno spazio sufficente.
Il gestore del bar mi presta una tanichetta da un gallone, ma non ha il tappo.
Ci metto un po’ ma poi risolvo e parto. L’idea è quella di procedere per un paio d’ore e poi di fermarmi per la notte vicino ad un lago, dove mi hanno detto che la gente a volte campeggia. Il primo inconveniente si presenta quasi subito. Per lavori stradali in corso, mi trattengono a far da pasto alle zanzare per quasi mezz’ora. Dopo una cinquantina di chilometri mi accorgo che sto per perdere la tanichetta. Mi fermo ed approfitto per svuotarne il contenuto nel serbatorio. Ci sta a filo.

La strada è tutta per me. Mi sono reso conto che non c’è più traffico. Quando mi fermo il silenzio è assoluto, irreale. Anche gli uccelli ormai si sono ritirati. Sono a mille metri di quota e l’atmosfera è tersa ed emana una luce strana, traslucida. Il sole è alto sull’orizzonte e quando non è nascosto dalle nubi, scalda ancora.
I tratti innevati cominciano ad essere più frequenti e la vegetazione arborea è sparita completamente.

Non manca moltissimo per Deadhorse, la cittadina nata sulla costa del mare artico. Comincia a solleticarmi l’idea di arrivare fino alla meta con il sole di mezzanotte. Perchè no, sarebbe bellissimo. E poi qui non c’è nemmeno un boschetto dove ripararsi. Le montagne che sto attraversando coprono il sole e all’ombra la temperatura cala subito di alcuni gradi. Ormai il termometro segna quasi sempre 12 ma al sole sale ancora fino a 16.

La vista delle montagne che si colorano di rosa al tramonto mi ricorda le dolomiti. Vado avanti ed comincio a salire. Di tanto in tanto c’è qualche stazione di pompaggio e rilancio del petrolio nell’oleodotto. Un campo enorme con molti serbatoi, containers, macchinari, officine ed alloggi per il personale. Ma non si vede un’anima viva. Siamo io e quel tubo enorme che corre a fianco a me come un serpente lucido e infinito. In qualche modo mi fa compagnia e mi rassicura.

Accarezzo il serbatoio della mia Hondina, come farei con un puledro di razza. Non abbandonarmi bella mia, siamo quasi arrivati, ormai. Salgo al passo e sono tra montagne ancora imbiancate di neve, poi inizio la lunghissima discesa dello North Slope. Si apre davanti a me la tundra, piatta e ventosa. Il blizzard comincia a farsi sentire subito e il termometro scende ad una velocità impressionante. Io sono ben coperto, mi son rimesso la tuta da pioggia perchè il vento mi penetrava fin sulla pelle. Sto bene, tranne i piedi che sono sudati negli stivali di gomma ed ora stanno gelando. Mi ero messo anche due pastiglie riscaldanti incollate ai calzini, ma il loro effetto è terminato già da alcune ore. Qui non c’è rifugio. O torno indietro o devo arrivare fino a Deadhorse.

Mi attraversano la strada diversi branchi di caribù e si fermano a guardarmi. Sono molto belli e con questa luce strana sembrano proprio le renne di Babbo natale. Ormai mi mancano solo una cinquantina di kilometri ma nonostante io vada verso nord, il sole ce l’ho proprio in faccia, all’altezza degli occhi, abbagliante. La pista è sconnessa e a tratti ci sono dei solchi o delle buche, poi ghiaino sciolto ed infine comincia ad esserci il ghiaccio. Non vedo nulla, sono accecato dal sole.
Lo spettacolo è affascinante, ma non vado avanti. Devo rallentare fino a 20 km/h o guidare con una sola mano per poter tenere l’altra a protezione degli occhi. Rallento. Questo ultimo tratto non finisce mai. Il vento laterale mi spinge e la temperatura è di soli 2 gradi. La strada luccica di ghiaccio e si confonde con la neve che ricopre la tundra, sui due lati.

Finalmente intravvedo qualche sagoma di costruzioni in lontananza. Mi ci vorrà però ancora mezz’ora per arrivare ai primi insediamenti. Sono dei capannoni industriali e file infinite di macchinari. Una desolazione assoluta. Le luci sono accese ma sbiadiscono con questo irreale chiarore diurno. Mi avevano detto che non sarebbe stato possibile montare una tenda sul posto. Non è consentito per ragioni di sicurezza. Che fare? Qui fa un freddo tremendo. Non c’è un’anima da nessuna parte. Il silenzio è assordante. Penso a dove piantarla. Gli unici posti possibili sono degli slarghi lungo la strada appena percorsa ma il fondo è di ghiaia compatta e con questo vento temo che mi sarebbe difficile tenerla ferma senza i picchetti. E si, perchè i picchetti mica si piantano sul terreno ghiacciato. Poi, alla disperata, entro in una stradina che si inoltra nella tundra e fermo la moto.
Scendo e mi inoltro su quello che difficilmente potrebbe definirsi un prato, ma ci assomiglia. Ci sono dei cespi di un’erba strana, secca e dura e ritorta. Sembrano cespuglietti di alghe. Sotto c’è sabbia e sembra morbida. Ok, è deciso, monterò qui, poi se qualcuno verrà a mandarmi via, dovrà almeno aiutarmi a smontare e caricare la moto. Ma allora sarà già mattina. Detto fatto, più detto che fatto, alle 2,30 di mattina saluto la piccola, che lascio sulla pista ad aspettarmi, mi infilo nel sacco a pelo e comincio a massaggiarmi i piedi che sono gelati. Fuori il sole sta ormai girando ad oriente e tra poco sarà mattina.


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