14 maggio 2010
Ho lasciato la Valle con una temperatura molto alta. La strada si arrampica in salita fino a 1500 metri e lì fa già fresco. Ho incrociato molte coppie di motociclisti, tutti harleysti e tutti rivestiti di tatuaggi. Come sono strani e diversi da noi enduristi…. Devono averne vendute a milioni, qui negli States. Le moto che circolano al 97% sono Harley. La filosofia di chi le guida è differente dalla nostra, ma tra loro sono proprio tutti uguali. Ne ho incrociati alcuni, a quota 2500, con la neve attorno, in maniche corte e calzoncini. Io avevo freddo con la giacca, non so loro.
Il percorso mi porta in alto, tra foreste di pini e chiazze di neve e poi scende attraversando pianure aride e pascoli verdeggianti. Ogni poche centinaia di metri ci sono campeggi ed una buona parte del traffico è formata da camper o pickup attrezzati. Le indicazioni sono ottime e suggeriscono cosa vedere in ogni parte del territorio che si sta attraversando.
Ci sono molti laghi ed uno in particolare, il Mono Lake, presenta delle formazioni tufacee molto interessanti.
C’erano persone appostate da tre giorni in attesa di cogliere la luce migliore per fotografare questi monumenti naturali che si rispecchiano nell’acqua immobile.
La strada da percorrere per arrivare a Reno è tanta e forse me la son presa troppo comoda. Inoltre non ho fatto i conti con i rigorosi limiti di velocità e così sono arrivato con il buio.
Miriano mi è venuto incontro ed ora sono a casa sua a festeggiare con Diana, Giammi e Carlo davanti ad un buon piatto di spaghetti al pomodoro ed una coppa di vino rosso. Che pacchia.
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13 maggio 2010
Mi sono avvicinato alla Death Valley in punta dei piedi, come stessi andando a trovare un vecchio amico ammalato. Non so perchè mi ha fatto questo effetto, forse la suggestione, le storie lette, i racconti sentiti.
Ho guidato lentamente, osservando l’asprezza e la solitudine della montagna che si apriva davanti a me per poi farmi scendere in un catino, sempre più in basso, fino ad arrivare sul fondo della depressione più profonda dell’America settentrionale, a – 87 metri.
Nella valle non ci sono città, nè paesi, nè gruppi di case. Nella valle non ho visto nè sentito alcun animale, nè di pelo, nè di penna. Quando mi è capitato di fermarmi, la cosa che mi ha colpito di più è stato il silenzio. Nemmeno il fruscio del vento, solo il silenzio, assoluto. Tutto questo in apparenza, perchè in realtà la valle vive.
Mi sono informato e mi è stato detto che nella Valle della Morte sono state individuate e catalogate ben 600 specie di piante e fiori del deserto. Tipologie di piante che si sono acclimatate alle condizioni estreme della valle. Vento, scarsità d’acqua e salinità del terreno hanno richiesto particolari adattamenti.
Anche la fauna sembra sia ben rappresentata, con più di 200 specie di uccelli, quaranta tipi di mammiferi, una quarantina di rettili tra i quali 20 di serpenti. Inaspettatamente, sembra vivano qui anche crostacei e perfino una chiocciola marina. Sono infine rappresentati anche dei pesci, alcuni rari, altri frequenti nelle pozze e sorgenti di montagna.
E l’uomo? I primi coloni che si avventurarono da queste parti, poterono constatare come l’area non fosse libera ma bensì abitata da indigeni Timbisha, poi rinominati Shoshoni e Paiute. Di questi antichi popoli rimane solamente qualche centinaio di rappresentanti, dei quali una cinquantina continua a vivere nella valle. Sono passato a fianco del loro villaggio, costituito da carrozzoni in metallo e case prefabbricate. Mi si è stretto il cuore. Gli Stati Uniti saranno anche la più grande democrazia del mondo ma la loro storia si è abbeverata del sangue dei nativi e del sudore degli schiavi d’Africa. E questo non va dimenticato.
Nel 1849 la corsa dei cercatori d’oro spinse migliaia di poveracci verso questa terra arida e crudele. Nacquero decine di leggende su favolose miniere perdute sulle montagne.
Nel 1849 un centinaio di pionieri con famiglie e carri si inoltrarono nella valle. Passo’ un mese prima che riuscissero a scamparne. Dovettero mangiare i buoi ed abbandonare i carri. La loro epopea divenne una leggenda e diede il nome alla valle.
Geologicamente parlando, la Valle della Morte è una criptodepressione, lunga 220 chilometri e larga circa 40.
Le rocce risalenti a 500 milioni di anni fa, ritrovate sulle montagne, sono di arenaria e quindi di carattere sedimentario.
Preponderante però, per la formazione della valle, è stata l’intensa attività vulcanica, svoltasi principalmente nel Terziario.
Mi sono fermato a Zabriskie Point, celebrato nell’omonimo film di Antonioni. Le rocce che lo formano sono colorate e datano 10 milioni di anni.
La valle costituisce indubbiamente un laboratorio all’aria aperta per geologi e scienziati
Anche se ancora non siamo in estate, qui fa caldo. Nel luglio 2005, registrati con certezza i 54 gradi, la Valle della Morte segna il record storico mai registrato sulla Terra. La piovosità è minima e si registrano precipitazioni annue da 30 a 60 mm.
Non è un posto dove ci si sognerebbe di costruirsi una casetta.
Dei due resort esistenti nell’area, uno era chiuso ed uno era occupato completamente. Ho continuato quindi per altri 40 km, uscendo dall’area del parco, finchè non ho trovato un albergo con una stanza graziosa e qui mi sono fermato per la notte. Sono ancora in un’area desertica ed il silenzio è assordante. Buona notte!!!!
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12 maggio 2010
Non avevo ipotizzato di passare per Las Vegas, pensavo di girare direttamente dalla freeway 15 verso la Death Valley ma proprio a dimostrare come il mio programma di viaggio non sia preordinato ma si sviluppi lungo il cammino, giorno per giorno, quando sono arrivato al bivio di Baker ho tirato dritto. Las Vegas a quel punto distava poco più di un centinaio di kilometri. L’autostrada ti ci porta in un attimo e nella città si circola abbastanza bene. Tutto sommato penso di aver preso una buona decisione.
Ho trovato un’ottima suite in un buon hotel, 100 metri quadrati con 2 super letti king size, divani e poltrone, cucina completa e vista sui grattaceli della strip. Quanto ho speso? 26 dollari!! Cooooosì mi piace!
La cosa più buffa mi è capitata dopo aver posteggiato la moto nel parcheggio retrostante il Casinò. Ho chiesto ad un inserviente da dove sarei potuto passare per non fare tutto il giro del fabbricato. “Ma passa attraverso la sala del casinò”, mi ha risposto. “Ma come”, ho detto, “conciato così”? Si è messo a ridere. Poi ho capito. Probabilmente ero il più elegante tra l’umanità di giocatori presenti. Che bel carnevale!!
Ora mi son fatto una bella e meritata doccia e me ne andrò un po’ a spasso ad osservare questo mondo perverso, dedito al vizio. A più tardi allora………….
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Eccomi di ritorno. Bella e sorprendente. La pazzia di Las Vegas è contagiosa. É un grande luna park per adulti, è estrema in ogni sua manifestazione. Bisognava vederla. Ho anche approfittato per farmi rimborsare la deviazione dal “signor” Bellagio. Mi sono accontentato delle spese e poco più. Ho camminato tanto, tra la Roma antica del “Caesar Palace” e le calli veneziane del “Venetian”, che ormai non sento più le gambe. Mamma mia quanti soldi scorrono tra quei tavoli, e quanta gente strana si incontra.
Ora ho soddisfatto la mia curiosità ed accontentato sicuramente anche coloro che non avrebbero compreso una mia mancata visita a questo santuario del gioco d’azzardo e così domani riprenderò il cammino verso Nord, passando per la Death Valley.
Purtroppo mi è giunta notizia che Yosemity è chiuso per neve. Chissà, magari si scioglie nei prossimi due giorni e riesco a visitarlo.
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11 maggio 2010: welcome to USA!
Eccomi negli USA. Benchè negli ultimi 100 km le caratteristiche ambientali avessero già cominciato ad assumere aspetti più gradevolmente ordinati, la differenza che si nota appena oltre la frontiera di Tijuana è lampante. Siamo in un altro mondo, sotto tutti i punti di vista.
É sempre difficile comprendere come due paesi confinanti i cui popoli, almeno nelle aree di confine, hanno necessariamente radici comuni o genetiche o storico/culturali, riescano ad essere così differenti tra loro in ambito sociale ed organizzativo. Avevamo da noi un esempio evidente nell’allora Yugoslavia (ed in tutto il blocco filosovietico), ma in quel caso le ragioni politiche erano evidenti. Qui ci troviamo di fronte a paesi potenzialmente liberi e democratici eppure il disallineamento è tale da stupire. Diventa pertanto evidente come possa diventare determinante l’educazione che una società riesce a dare ai propri cittadini che non sono potenzialmente più colti, più buoni o più intelligenti. E l’educazione si basa sulla serietà delle istituzioni, sul buon governo e soprattutto sulla rapidità e certezza della giustizia. Cosa peraltro di cui avremmo bisogno anche a casa nostra.
Non nego che, entratovi con molte aspettative, forse troppe, oggi non vedevo l’ora di lasciare il Messico. Per questo paese, per i suoi miti, le sue leggende, provavo una grande simpatia.
Pensavo al Messico e davanti agli occhi mi compariva l’immagine clichè del campesino addormentato sotto al sombrero, appoggiato alla casupola bianca di calce. L’immagine di una persona buona, povera ed indifesa. Rivedevo le tante versioni dei film del leggentario Zorro che difendeva i poveri dai soprusi dei ricchi. Ripercorrevo mentalmente le storiche vicende rivoluzionarie di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, ribelli anelanti giustizia e libertà per il loro popolo. Pensavo alla lotta clandestina che ancora scuote questo paese, ai generali, al subcomandante Marcos, con un senso di inevitabile simpatia. Sempre, a torto o a ragione, si tende a parteggiare per la parte che appare più debole, che viene sopraffatta dal potere. Oggi molte di queste immagini mi appaiono sbiadite ed un po’ me ne dispiaccio. É la reazione inconscia a seguito di una delusione e spero sinceramente di potermi ricredere in futuro. Non c’è dubbio che valga la pena visitarlo, ma sicuramente le potenzialità sarebbero più alte, come lo erano le mie aspettative.
Tornando al viaggio………
Ancora ad Ensenada, questa mattina, mi ero attivato per stipulare una polizza assicurativa per la motocicletta. Mi avevano assicurato che ci sarebbero state molte agenzie disponibili, in prossimità della frontiera, ma per evitare di trovarmi in difficoltà all’ultimo momento, mi era parso saggio anticipare i tempi. L’impiegata della prima agenzia cui mi ero rivolto mi aveva chiesto i dati ma quando aveva capito che si trattava di una moto, si era dichiarata impossibilitata a rilasciare una polizza. Mi aveva consigliato di rivolgermi ad una banca. Anche questo tentativo era fallito. La banca non emetteva polizze temporanee per veicoli immatricolati fuori dal territorio statale. Avevo pertanto deciso di proseguire per avvicinarmi alla frontiera.
Giunto a Tijuana, passato un ponte, mi sono trovato fermo, in fila ad un semaforo. Ho tentato di avanzare tra le auto ma gli spazi erano tutti occupati da venditori ambulanti e postulanti di ogni tipo. Dopo un quarto d’ora di attesa, percorse poche decine di metri, mi sono reso conto di essermi incanalato nella coda che porta alle barriere doganali del confine di stato. Bene e male, mi son detto, non sono riuscito a stipulare la polizza in città, però sono già prossimo alla frontiera e lì troverò sicuramente un’agenzia specializzata.
Tra mille manovre riesco ad avanzare tra le auto e tra gli ambulanti. Ce ne sono anche di quelli che vendono polizze per auto del tipo gratta e vinci ma, interpellati, mi confermano che sono solo per auto e per messicani. Uno di loro mi assicura che in frontiera troverò l’ufficio che cerco.
Percorro la coda lentamente e mi accorgo che si allarga mostruosamente oltre le 30 file, forse di più. Un groviglio inestricabile. Ai bordi strada una sequela di chioschi che vendono di tutto, dai rinfreschi alle borse, alle magliette e gadget più disparati. Sembra di essere ad una fiera paesana.
Riesco a passare tra le auto ed i banchetti, sfiorando con le borse la mercanzia esposta. Un po’ mi vergogno a fare il furbetto ed ignorare la fila che prosegue per quasi un chilometro ma è diventata una questione di sopravvivenza.
Arrivo finalmente in prossimità dei semafori che regolamentano l’accesso ai caselli di transito e mi fermo. Preparo passaporto e documenti e mi accorgo solo in quel momento di essere già davanti alla dogana degli Stati Uniti d’America. E quella del Messico? Non ho timbrato l’uscita sul passaporto e non ho timbrato l’uscita sui documenti di esportazione temporanea della moto.
Nel frattempo, davanti a me, a pochi passi, la polizia arresta un uomo e lo trascina via ammanettato. Chiamo un agente che dapprima non mi bada ma dopo un po’ si avvicina e comincia a chiedermi della moto, del viaggio, di me. Dice di avermi visto sul giornale e si congratula con me per le mie imprese. Però, penso io, sono già famoso da questa parte dell’Oceano. Rispondo con un laconico “maybe” ed accetto i complimenti. Non gli è chiaro perchè io senta la necessità di avere il timbro d’uscita sui documenti ma comunque si informa da un collega. Tutto bene, dice, procedi pure e ti metteremo un timbro noi. Passo alla verifica del passaporto che richiede una decina di minuti. Nel frattempo si avvicinano diversi agenti che mi fanno mille domande inerenti il viaggio e si complimentano e mi sorridono. Mi vien restituito il passaporto e mi invitano a procedere. “Non hai bisogno di nulla, puoi andare” – mi dicono.
Esco così, nella maniera più semplice, da quella che ritenevo essere la frontiera più problematica, senza visto, senza timbri, senza ispezioni e senza riempire nessun modulo. Spero solo che non mi facciano storie in uscita, quando sarà il momento.
La strada che mi accoglie appena oltre confine è un fiume in piena ma è talmente larga che il traffico scorre veloce. Sono cinque corsie per ogni senso di marcia ed il fondo è perfetto. Anche la mia Honda apprezza ed il fruscio che emette scorrendo sul cemento rigato sembra il ron ron di un gattone che fa le fusa.
Arrivo in periferia di San Diego e mi fiondo all’uffico turistico per chiedere informazioni sull’assicurazione. La signora che mi riceve, 200 kg di donna, è molto gentile e mi fornisce le indicazioni richieste. Mi reco pertanto presso gli uffici di una compagnia di assicurazioni, faccio la mia brava fila per più di un’ora, sottopongo i documenti ed aspetto un’altra ora. Il verdetto finale è che non possono assicurare targhe straniere. É la solita storia. E adesso? Se mi ferma la Polizia mi sequestra la moto. Se mi succede qualcosa sono guai seri. Qui non scherzano di sicuro su queste cose. Chiedo altre informazioni al distributore ma non mi sono d’aiuto. Decido di procedere.
Attraverso San Diego sfiorando il porto ed il centro. L’esposizione di navi da guerra che vedo allineate lungo la banchina è impressionante. Ci dev’essere mezza Marina degli Stati Uniti.
Proseguo lungo la 15 e mi avvicino a Los Angeles da sud/est. Sono combattuto tra il desiderio di attraversare la mitica città e tutti i ragionamenti che mi sconsigliano di farlo. Quando mi fermo per prendere un attimo di respiro e mangiare qualcosa, sono ormai le 4 del pomeriggio. Guardo la cartina e punto il GPS su Santa Monica. Pur essendo già in periferia di Los Angeles, per raggiungere il punto dovrei percorrere 102 km di traffico cittadino. Su strade larghe, probabilmente scorrevoli ma se non fosse così? E poi domattina rifare tutti i 100 km all’inverso? No. Analizzo la situazione, i pro ed i contro e decido per il no. Ma come, sei a Los Angeles e non ci vai? E Hollywood, Malibù, Beverly Hills? No, no e no!!! Un po’ mi dispiace però. Rianalizzo la situazione. Punto primo, sono senza assicurazione. Secondo, le auto hanno sempre poco rispetto delle moto e si avvicinano pericolosamente. Dovrei triplicare l’attenzione e concentrarmi solo sulla strada, senza distrarmi. Terzo, le città moderne non mi interessano più di tanto, con un’unica eccezione: la Grande Mela. Quarto e non ultimo motivo (o scusa), la mia Africa anela gli spazi aperti e soffre di claustrofobia. Nelle file dei semafori le sale subito la febbre. In conclusione decido di proseguire. Avrò così un valido motivo per tornarci, con più calma e con altri mezzi e sarà bello ricordare questo passaggio.
Seguo la freeway 15 che mi porta rapidamente verso l’interno, in direzione di Las Vegas. Il sole sta tramontando su un paesaggio senza cactus, dove le strade sono scorrevoli e senza “topes” ed i paesi che scorrono ai lati della strada appaiono più familiari ed accoglienti. La temperatura scende, è giunto il momento di cercare rifugio per la notte………..
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Dicono di noi
Il Giornale di Vicenza – 11 maggio 2010
La strana coppia in motocicletta dal Sudamerica all’Alaska
Si chiamano Nini e Ugo, sono vicentini e colleghi di lavoro
e in testa hanno avuto un’idea meravigliosa… continua >