23 maggio 2010
Oggi, 23 maggio 2010, sono trascorsi esattamente tre mesi dalla partenza dall’Italia e 27.000 kilometri percorsi, con una media giornaliera, soste comprese, di circa 300. Ho celebrato con un pensiero rivolto a tutti e poi ho inforcato la moto ed ho ripreso la Freeway 101.
Lasciata la foresta degli alberi secolari, mi avvio verso la costa del Pacifico. Fa freddo e rimpiango di aver eliminato i guanti pesanti e le sottobraghe. Indosso il girocollo leggero e la pettorina. Sto procedendo a tappe lente, in modo da non arrivare in Canada prima di giugno ed affrontare poi il grande nord con una temperatura più mite. Quando sarò a Seattle dovrò acquistare calze pesanti, guanti imbottiti ed una calzamaglia. La moto va bene ma il vento a raffiche continua a darmi percezioni di rumori e vibrazioni mutevoli, cosa che mi crea qualche allarme ma senza motivo.
Entro ed esco da foreste monumentali, costeggio l’oceano, attraverso fiumi e torrenti carichi d’acqua. Ad un certo punto esco dalla freeway ed imbocco lo svincolo. Mi trovo subito davanti un’intera famiglia di cervi. Rimango sbigottito ad osservarli a distanza. Poi lentamente mi avvicino per poterli fotografare. Sono bestie stupende. Sono tutti esemplari giovani, tranne uno, il capobranco, che rifiuta di farsi vedere e nasconde il suo palco tra le foglie degli alberi. Il branco è sdraiato a terra e rimane ad osservarmi senza allarmarsi. Dopo aver scattato numerose foto, riprendo il cammino.
In serata attraverso il confine tra California ed Oregon e mi fermo subito dopo in una sorta di residence costituito da graziosi chalet in legno. La vista sulle scogliere del Pacifico è suggestiva. Il bungalow ha la cucina ed anche il barbeque. Decido così di ritornare al paese appena attraversato per fare acquisti di vettovaglie. Stasera mi cucinerò una buona porzione di linguine al pomodoro e basilico ed una grossa bistecca americana ai ferri.
L’aria è fresca e profumata. Quando torno allo chalet sorprendo due cerbiatti che stanno brucando l’erba del giardino. Mi avvicino fino a pochi metri. Non hanno paura ma preferiscono mantenere le distanze. Si allontanano lentamente e dopo un po’ si perdono tra i rami del vicino boschetto. Mi piacerebbe poterli rivedere domattina. Mi piacerebbe poterne vedere anche sulle nostre montagne, dove sono rimasti i cartelli segnaletici sulle strade di montagna, ma di loro non c’e’ nemmeno l’ombra.
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22 maggio 2010
Da San Francisco ho seguito la freeway 101 fino a Santa Rosa, dove mi sono fermato per la notte. Tutta la contea è conosciuta per la produzione del vino che, iniziata da oltre quarant’anni, ha cominciato a rivaleggiare per quantità e qualità con le più blasonate concorrenti europeee.
Correndo lungo l’autostrada si possono ammirare le file ordinate di vigne che ricoprono le colline. La temperatura è ancora bassa e le foglie stanno appena germogliando. Uno dei paesi si chiama Asti ed è circondato da basse alture che ricordano appunto le Langhe. Un cartello informa che qui vive una colonia di italiani ed una di svizzeri.
Proseguo verso nord e comincio a salire. Arriva anche la pioggia e la temperatura scende fino ai cinque gradi.
La strada è sempre bella e non passa mai tra i paesi che sembrano non esistere. I chilometri scorrono veloci in questa parte del globo, nulla a che vedere con quanto percorso nelle regioni del sud, dove non si arrivava mai. Dove però ci si godeva una guida vera, con curve continue e corse sfrenate. Qui è tutto un susseguirsi di cartelli che indicano, consigliano, vietano. Ho la sensazione di essere sotto sorveglianza continua, che se sbaglio anche una sola manovra mi salti fuori l’auto dello sceriffo della Contea.
La strada entra nella foresta e costeggia un fiume tortuoso dall’acqua verde scuro, di cui vedo scorci di tanto in tanto. Ad un certo punto un segnale indica la possibilità di percorrere una strada alternativa e parallela, il cui nome solletica la mia curiosità. Si chiama “Avenue of the Giants”, la strada dei giganti. Non esito ad uscire ed in breve mi ritrovo in un tempio verde, le cui colonne sono i fusti altissimi di monumentali alberi dalla corteccia rossastra solcata da profondi solchi e la cui volta è verde di foglie ed azzurra di cielo. Senza saperlo mi sono ritrovato nel “third largest California State Park” che ospita e protegge la “Rockfeller Forest”, la più estesa foresta di “redwood” del mondo. Sono loro i “Giganti”, le sequoie. La maestosità di queste piante, la penombra che crea il loro ombrello di rami e foglie, dona al luogo un’atmosfera di sacralità. Non si può che fermarsi e contemplare in silenzio.
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21 maggio 2010
Come avevo sospettato e nonostante le assicurazioni del meccanico della Concessionaria di Reno, la catena è molto tesa. Ho percorso 400 km ma non si è allentata per niente. Stamattina devo sistemate la cosa prima di fare danni irreparabili.
L’intervento è semplice ed ho con me le chiavi necessarie. Guardo comunque su internet per vedere se c’è qualche meccanico di moto nei paraggi. Si, sono fortunato e vedo che a 2 km di distanza c’è un’officina. Arrivo e in due parole spiego il problema ad uno dei meccanici. Non fa commenti, non chiede nulla e mi manda in ufficio per la registrazione. Una ragazzetta mi fa compilare un modulo con tutti i miei dati anagrafici e la descrizione dell’intervento richiesto. Poi attendo fuori, nel percheggio. L’officina si apre oltre un cancello in rete metallica, rigorosamente chiuso. É pulita ed ordinata e dentro si muovono 2 meccanici. Uno di loro indossa dei guanti neri, dev’essere il “primario”. Dopo un po’ l’impiegata esce per dirmi che tra poco finiranno il cambio dell’olio della moto su cui stanno lavorando, poi faranno una breve pausa per il pranzo e poi inizieranno con la mia.
Vado a fare 2 passi e quando torno la mia Honda è già in sala operatoria. Mi avvio verso il cancello socchiuso ma il meccanico mi precede e me lo chiude praticamente in faccia, inserendo anche il chiavistello. Mi fermo, un po’ sconcertato e aspetto. Dietro alla grata c’è del movimento per alcuni minuti e poi ecco che il meccanico si avvicina con il carrellino degli attrezzi alla ruota posteriore della moto. Ora mi chiederà qualcosa, penso, e rimango lì a guardare da fuori, attraverso la rete.
Vedo che allenta i dadi del mozzo, tira, batte, sistema e poi chiude. Sempre con la schiena girata verso di me, non una parola per l’intera durata dell’operzione. Ho l’impressione di essere dietro il vetro della sala operatoria, in una clinica universitaria, mentre il chirurgo opera. In un momento di coraggio mi ero permesso di suggerirgli di allentare abbastanza, perchè la moto è carica. Quando termina mi si rivolge, finalmente, e mi chiede di entrare per verificare l’intervento. Entro in officina passando per l’ufficio. La catena è tesa, esattamente come prima. Ok, mi dice il primario, ho capito, ora esci. Riprende l’operazione. Io fuori, ad osservare ansioso, con il naso tra le maglie della rete. Ora sono in due e si avvicendano sulla “paziente”.
Terminata l’ultima “sutura”, mi richiamano per la verifica finale. Ora mi sembra che vada bene, dico, e naturalmente giro i tacchi ed esco prima che mi caccino loro. Non resta che aspettare che dimettano la “paziente” (il paziente, in tutti i sensi, sono io).
Dopo alcuni minuti di completa assenza di attività ecco che si apre il cancello ed esce la moto spinta dal primario in persona. Me la mette sul marciapiede e rientra in sala operatoria, senza proferire parola. Non so che fare. Aspetto che mi dicano qualcosa. Dopo cinque lunghissimi minuti esce la ragazza e mi dice di passare in ufficio per saldare il conto. 5 dollari e nemmeno una parola. Esco, saluto e me ne vado. Caro, povero e umano Perù!!!!!
Mi rifaccio la vista transitando sul Golden Bridge, attorniato da auto sfreccianti e filmando la scena con la mia nuova telecamera montata sul casko. Mi allontano verso nord, sulla freeway 101…………….
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