11 aprile 2010
Il trasferimento di oggi, 550 km da Cali a Santa Fe di Bogotà, capitale della Colombia (2600 metri slm), ci ha visti partire sotto un cielo plumbeo ed una leggera pioggerellina che ci ha accompagnato per molte ore tra le campagne dei fondovalle e nell’arrampicata fino al passo più alto della Colombia, a 3250 metri di quota.
É piovuto per tutta la notte e stamattina alle sei, quando ho sbirciato dalla finestra del quattordicesimo piano della torre che ospita l’hotel di Cali, la città si stava svegliando sotto un acquazzone tropicale.
Speravo che con il passare delle ore il sole riuscisse a penetrare la coltre di nubi ma alle 9 abbiamo deciso di partire comunque. Sopra agli indumenti ancora umidi ed agli stivali decisamente bagnati, abbiamo indossato la tuta impermeabile. I movimenti legati e le sagome gonfiate da tanti strati, ci fanno apparire come degli astronauti.
Il tempo di scendere nella hall, pagare il conto e caricare le moto e siamo già in pressione. Io comincio a grondare sudore e non vedo l’ora di uscire all’aperto per respirare dell’aria fresca.
Per fortuna è domenica e il traffico sembra ridotto. La città è grande e le indicazioni mancano. Seguiamo un po’ l’istinto (non si vede nemmeno un raggio di sole) e ci dirigiamo verso nord.
I conducenti dei bus privati che sostituiscono il servizio pubblico sono dei veri pirati della strada e bisogna evitare di averli attorno. Non si curano di nessuno e tagliano la strada o stringono senza preavviso e senza frecce. Se lungo la via un potenziale passeggero alza il braccio, loro accostano all’istante, senza curarsi di chi si trova nel mezzo. Nelle file ai semafori si affiancano fino a sfiorarti e con l’ingombro delle nostre borse laterali c’è di che preoccuparsi. Nemmeno appare la luce verde del semaforo che già tutti suonano all’impazzata e scattano avanti come fosse una partenza di GP. Se poi piove e le strade sono allagate, le auto possono spostarsi improvvisamente su un lato per evitare una pozzanghera e ti costringono a brusche frenate.
Nonostante sia caldo, la visiera si appanna. Probabimente la nostra temperatura corporea raggiunge livelli da forno ed il nostro alito si condensa all’istante sul plexiglas. É una pena. Abbiamo sperimentato la patata, come antiappannante e devo dire che per una buona mezz’ora ha dato ottimi risultati.
Fuori da Cali, la campagna è suddivisa in piantagioni di canna da zucchero, coltivazioni di cereali ed aree destinate alle piante da frutto. Filari di alberi di papaia carichi di frutti si susseguono per lunghi tratti. Piove sempre e ormai siamo bagnati fuori e dentro la tuta.
Dopo un paio d’ore di pianura iniziamo a salire. La temperatura scende con la quota, la pioggia si intensifica ed inizia la nebbia. In prossimità del passo, a 3250 metri, entriamo nelle nubi e la visibilità scende a meno di 20 metri. Sento il rumore della marmitta della KTM, davanti a me, ma non la vedo.
La strada è viscida ed i tornanti li dobbiamo affrontare in prima, con la gamba tesa e pronta ad intervenire in caso di scivolata. Fa freddo e le mani sono la parte più esposta.
Quando inizia la discesa torna anche la visibilità e dopo un’ora si comincia a sentire qualche ventata di calore che sale dalla valle sottostante. Il panorama è suggestivo, le pendici dei monti sono lavorate a terrazze fino nelle parti più alte e le tonalità di verde ci sono tutte.
L’unica strada è percorsa da ogni genere di veicolo ma si incontrano spesso carovane di cavalli carichi di merci. Fuori dalla strada sono l’unico mezzo di locomozione possibile. Nessun fuoristrada riuscirebbe a percorrere gli stretti sentieri che si inerpicano tra i monti. Ogni ponte su cui transitiamo è presidiato da militari armati e cosi i paesi, sia prima che dopo.
Mi par di rivedere le scene tipiche di molti film americani girati sul tema della droga e dei sequestri operati dai guerriglieri. Quando passimo i militari ci salutano alzando il pollice. Sono tutti giovanissimi.
Ci fermiamo solo per rifornire e purtroppo la macchina fotografica è nella borsa, sotto alla protezione impermeabile e così scatto poche foto, anche se non mancano certamente le occasioni. Ai lati della strada ci sono spesso i banchi dei venditori di frutta che espongono in bella mostra ogni ben di Dio. Anche negli altri paesi del sudamerica se ne vedevano ma avevano poche cose e poco invitanti. Qui l’esposizione è curata e la frutta si presenta bene, pulita e sana.
Ci fermiamo ed in pochi minuti riusciamo ad assaporate una mezza dozzina di banane, dei mandarini ed un ananas delizioso, tagliato al momento ed affettato in rotelle da 4 centimetri di spessore. Il tutto per l’equivalente di 2 dollari. Questo è il nostro pranzo di oggi.
Chiacchieriamo a lungo con i venditori che si affollano attorno a noi, curiosi. La loro principale preoccupazione, come del resto quella di tutti i colombiani con cui abbiamo parlato, è di conoscere la nostra opinione sul loro paese, sulla gente. Quando partiamo, dopo le fotografie di gruppo, si sbracciano per salutarci ed augurarci ogni fortuna.
L’ultima parte di strada scorre veloce ed arriviamo alla periferia di Bogotà all’imbrunire. Negli ultimi 100 km, approfittando di un bel cielo terso, ci eravamo tolti la tuta da pioggia per tentare di far asciugare quanto sta sotto.
Ora però ricomincia a piovere. Ci buttiamo nel traffico e cerchiamo disperatamente un hotel per più di un’ora, intrappolati dal flusso che ci trascina con sè.
Finalmente riusciamo a vedere alcune insegne e con mille difficoltà, percorrendo anche dei sensi vietati, riusciamo ad arrivare ad un alberso. Anche per questa notte riusciremo ad evitare di dormire sotto ad un ponte.
Download itinerario del 11 aprile 2010 >> (per visualizzare il tour è necessario Google Earth)
10 aprile 2010
La Colombia mi ha sorpreso. Pensavo di trovare un paese povero e malandato, in preda a disordini politici e ostaggio dei malavitosi. Come sempre bisogna toccare con mano e lasciar perdere i pregiudizi.
Fino ad ora, per quanto sono riuscito a vedere e capire, penso di classificare questo paese al primo posto, tra gli stati visitati, quanto a progresso sociale e modernità delle infrastrutture. Parlo ovviamente della situazione media, in quanto le aree metropolitane dell’Argentina e del Cile sono sicuramente su standard medio-alti, ma hanno però vaste zone desertiche o di sottosviluppo.
Escludo dal confronto la Bolivia in quanto distante anni luce da una situazione accettabile ed il Perù che comunque è un buon passo indietro.
In Cile ed Argentina il benessere ha due velocità, quella dei bianchi, oriundi europei e quella degli indios.
In Ecuador ed in Colombia, la popolazione è mista ma omogenea. Le infrastrutture sono in buone condizioni. Le strade sono ottime, anche se non esiste un solo tratto rettilineo e vengono mantenute costantemente in efficenza da numerose squadre di stradini, onnipresenti lungo tutta la rete. Le scuole sono numerose e sembrano ben strutturate. Le abitazioni medie sono decorose e ben tenute. La pulizia e l’educazione delle persone sono di buon livello. Finora abbiamo riscontrato solo gentilezza e cortesia.
Il nostro viaggio di oggi riprende da Pasto con destinazione Cali. Sono circa 450 km con una previsione di 8 ore di marcia.
Alle 9 siamo già sulla strada che ci porta tra le montagne, sull’orlo di orridi profondi ed in vista di valli rigogliose. Saliamo e scendiamo. Appena perdiamo quota, subito spuntano fichi d’india e banani. Più scendiamo in basso e più la foresta pluviale infittisce. Piante altissime e stupende si sporgono sulla strada, agavi enormi ricoprono i fianchi della montagna. Le piogge della notte hanno fatto franare intere scarpate ed il materiale ha invaso con sassi e fango le corsie di transito. Le squadre di mantenimento sono all’opera ma per il trafficio ci sono ancora molte deviazioni. Le curve si susseguono ed il traffico è sempre intenso. Camion ed autobus si rincorrono sorpassandosi ovunque, anche in curva. Ogni tanto scrosci d’acqua rendono la via sdrucciolevole e noi procediamo con la massima prudenza.
Ad un certo punto, su un passo, osservo un panorama che vorrei fotografare ma non trovo lo spiazzo per fermarmi. Sto procedendo lentamente quando da dietro una curva sbucano, affiancati, i musi colorati di due mostruosi camion. In un attimo riesco a fermarmi e così fanno loro. Davanti a me, ad un soffio, c’è un cromatissimo radiatore da due metri quadrati. Un camion si riavvia, l’altro rientra nella sua corsia. Nemmeno una scusa.
Arriviamo a Cali per tempo, con l’idea di trovare alloggio prima di buio. Come infiliamo i viali della città inizia il finimondo. Un acquazzone tropicale ci investe. I fulmini ci cadono attorno ed i tuoni sono assordanti. L’acqua per le strade cresce ed inonda tutto. Seguiamo il flusso del traffico che non rallenta. E così per più di un’ora, con l’acqua ai mozzi e i bus che ci sfilano da tutte le parti, suonando furiosamnente.
Una coppia di ragazzi in moto si offre di scortarci fino ad un hotel e li seguiamo nel traffico. Ancora una volta arriviamo con il buio.
Download itinerario del 10 aprile 2010 >> (per visualizzare il tour è necessario Google Earth)
9 aprile 2010
Ieri sera, tra uno scroscio d’acqua e l’altro, eravamo arrivati a Tulcàn, ancora in Ecuador ma sul confine con la Colombia.
Trovato l’albergo e mangiato un “Caldo de pollo” (brodo di gallina), che ultimamente Nini comincia ad apprezzare, abbiamo tentato un giretto digestivo per le vie del borgo. Niente, tutto chiuso!! E allora a letto presto.
Questa mattina, riassettato il bagaglio sulle moto, controllato olio e liquido refrigerante, spennellata una buona dose di grasso sulla catena, siamo partiti alla volta del confine.
Come sempre mancano le indicazioni. Il GPS di Nini non è dotato di mappe per quest’area e pertanto bisogna chiedere. Sono tutti gentili e vogliono spiegare nel dettaglio, paese per paese, tutto il percorso. Naturalmente dopo il secondo nome già non ricordo più il primo, ma per cortesia aspetto che terminino la sequela di dati.
Molto spesso gli anziani, specialmente le donne, ci salutano con un “feliz viaje” oppure con “que le vaja bien” o più semplicemente con “suerte amigo” che fa sempre piacere.
In frontiera c’è fila e perdiamo più di un’ora.
Conosciamo due motociclisti americani che viaggiano in senso inverso. Uno dei due è musone e saluta appena. L’altro, più giovane, è invece cordiale e simpatico. In attesa davanti allo sportello della dogana riusciamo a trovare tutto il tempo che ci serve per scambiarci reciproche informazioni sui paesi appena visitati. Loro sono in viaggio da due mesi e procedono lentamente, visitando bene il paese e fermandosi spesso, come si dovrebbe fare.
Alla fine varchiamo il confine che sono le 12,30. La città in cui ci siamo prefissati di arrivare in serata si chiama Popayan e dista cinque o sei ore di strada (i chilometri qui non li usa nessuno). Tratta di lunghezza ideale per arrivarci prima di notte. Mi dicono inoltre che la città è storicamente interessante e la cosa non guasta.
Procediamo spediti ma ci dobbiamo presto fermare per indossare la tuta da pioggia. Appena in tempo, dopodichè arriva il diluvio.
Procediamo lentamente ma bene. Io sono davanti e Nini mi segue. Va stranamente lento ma lo tengo d’occhio nello specchietto. Lo distanzio e rallento, poi rivedo il suo faro in distanza e riprendo. La pioggia cessa e mi aspetto di vedere Nini dietro a me, ma non arriva. Rallento ed infine mi fermo.
Sopraggiunge il faro ma……….non è la moto di Nini. La strada appena percorsa è coperta da pietre e detriti caduti dalla montagna e mi preoccupo.
Inverto la marcia e ripercorro lentamente una decina di chilometri a ritroso. Mi sembra impossibile. Temo di non averlo notato passando tra i paesi, magari fermo a lato strada, nascosto da un camion o un pullman. Che fare, continuare o tornare indietro?
Continuo e finalmente, sull’altro lato, vedo da lontano il colore arancione della sua tuta da pioggia. Mi avvicino, inverto la marcia e mi fermo vicino a lui. Mi guarda sconsolato. Alza gli occhi al cielo e sbotta: “Il cambio! Si dev’essere rotto qualcosa nel cambio. Le marce entrano ma la moto non ingrana”.
—
Le nostre moto sono affiancate, in un piccolo spiazzo a bordo strada, davanti ad un negozietto che vende alimenti. Nini ha già chiesto informazioni per un meccanico. Non resta che aspettare.
Piove ancora, ci rifugiamo all’interno del negozietto dove c’è un tavolo con due sedie. Mangiamo delle gallette salate con una bibita ed aspettiamo. Esce il sole. Le nostre cose, caschi, zaini e guanti sono su una panchetta sotto allo sporto del tetto. Mi siedo anch’io li, mentre Nini cammina avanti e indietro. Il meccanico non arriva. “É normale – dico a Nini – non ci siamo solo noi, avrà le sue cose da fare, aspettiamo con calma”.
Mentre son lì a non fare niente, scorro con lo sguardo le moto. Vedo e non vedo un particolare strano sulla KTM. Mi aggiusto gli occhiali. Mah, eppure….
Mi alzo, mi avvicino e mi chino per osservare meglio il retrotreno. La corona dentata mi appare in tutta la sua bellezza, nuda e cruda. Ma non manca qualcosa? Dov’è finita la catena? “Nini, Nini – chiamo con voce eccitata – non hai rotto il cambio, forse dovresti dare un’occhiata alla catena!!!”. Mi guarda ma non capisce. Si avvicina alla moto, si abbassa e finalmente anche per lui diventa tutto chiaro. Ha perso la catena. Ecco perchè le marce ingranano ma la moto non risponde.
Ora tutto appare più chiaro ed anche il problema si presenta sotto un’altra luce. La catena non puo’ che essere lì, a pochi metri di distanza, sulla strada. Ed è infatti a meno di cento metri da noi, nella cunetta.
Recuperata la catena, non rimane che ripararla con l’ausilio dei pezzi di ricambio che abbiamo con noi. Nini estrae il suo kit ma la falsa maglia non è quella giusta. La mia catena è di una misura più grande e così i miei ricambi.
Il meccanico esegue allora un doppio trapianto, previo piccolo intervento di chirurgia meccanica e con tutti i pezzetti a disposizione rimette insieme la catena.
Bene, molto bene. Siamo pronti a ripartire ma ormai sono le tre e mezza. Troppo tardi per arrivare alla meta prefissata. Mancano infatti dalle 4 alle 6 ore di viaggio, mentre le ore di luce sono meno di tre.
Decidiamo cosi di fermarci al primo paese. Reindossiamo le tute antipioggia e partiamo sotto al diluvio che ricomincia. La visibilità scende, la visiera si appanna. Cosi non si fa strada. Da domani dovremo partire la mattina presto perchè qui, di pomeriggio e di sera, piove sempre.
Per Bogotà mancano 970 chilometri, un passo a 4150 metri ed un milione di curve………….
Download itinerario del 9 aprile 2010 >> (per visualizzare il tour è necessario Google Earth)
8 aprile 2010
La decisione presa ieri sera è stata saggia. Per percorrere l’ultimo tratto da Santo Domingo a Quito stamattina ci abbiamo impiegato due ore e mezza. La strada era tutta una curva e siamo saliti oltre i tremilametri di quota. Di notte e con la pioggia, ci avremmo impiegato almeno il doppio del tempo.
Lasciato Santo Domingo, la strada si inoltra subito tra le montagne. Entriamo nella foresta tropicale con vegetazione fitta ed impenetrabile, corsi d’acqua impetuosi e densi di fango, cascate.
Curva dopo curva si sale fino a 3250 metri. Il panorama cambia ancora. L’Equador di ieri oggi ha un’altra faccia. Sull’altopiano fa freddo ma le piante che vi crescono sono tuttavia molte e rigogliose.
Arriviamo a Quito che riveste di case un’intera vallata. Riusciamo a percorrere le tangenziali senza dover entrare in città. Quello che vediamo ci basta. Povera umanità!
L’unica nota particolare di oggi è il taglio dell’Equatore. E registriamo 15.000 km percorsi……
Download itinerario del 8 aprile 2010 >> (per visualizzare il tour è necessario Google Earth)
7 aprile 2010
La giornata comincia male. Dalla sala dove stiamo facendo colazione vedo un rivoletto d’acqua che scola dal tetto. Sta piovviginando. Lo temevo. Dopo 40 giorni di viaggio senza una vera pioggia, ormai sarà inevitabile.
Dopo mezz’ora invece, quando partiamo, c’è il sole ed il caldo è già “agobiante”.
Usciamo dal garage e dopo nemmeno 100 metri un passante mi avverte che la mia gomma posteriore è a terra. Ma possibile!! Non poteva succedere dentro al garage? No, qui, al semaforo, nel flusso di auto e nell’ora di punta. Riesco tuttavia ad eseguire un’inversione ad U, nonostante sia senso vietato e mi infilo nella strada laterale che avevo appena superato, dove, dicono a Nini, dovrebbe esserci un meccanico. Percorsi meno di 100 m, mi fermo davanti alla bottega di un gommista.
Ci vuole un’ora, ma approfitto anche per sostituire il copertone, ormai liso, con quello che mi sto trascinando dietro da Mendoza (Argentina). Tutta l’operazione diventa spettacolo ed una piccola folla di curiosi si accalca attorno alle moto. Tremiamo all’idea che si operi il saccheggio di cui in molti ci hanno parlato. E invece solo domande. Ogni nuovo arrivato deve sapere e chiede, ma nessuno tocca niente. Passano anche due pattuglie di polizia che uno dei presenti appella col nome di “pajazos” e li definisce “ladrones’. Così va il mondo….
Nessuno di noi due osa spogliarsi della tuta da moto. Nelle tasche teniamo tutte le nostre risorse economiche ed i documenti. Il caldo è torrido ed umido. Grondo sudore. Dal volto mi cadono gocce in continuazione e quando mi piego in avanti per osservare il lavoro, gli occhiali si bagnano. Mi sento indebolito. Nini trova una bottega ed acquista una bibita. Come bevo mi sento inondare dal sudore.
Fortunatamente, prima di partire, ho fatto montare il cavalletto centrale, che non c’era. Ciò nonostante il forte carico sul retrotreno rischia di far cadere la moto. Il giovane meccanico monta a modo suo la ruota che devo far regolare più volte per averla finalmente posizionata correttamente.
Alla frontiera le formalità sono sempre le stesse. La dogana dell’Equador si trova a 10 km dal confine e la cosa ci sembra così strana che ci fermiamo varie volte per chiedere informazioni, temendo di aver capito male. Tutto procede bene ma, tra le carte del Perù e quelle dell’Equador, se ne va un’altra oretta.
Sono le undici e mezza quando finalmente iniziamo il nostro viaggio nel nuovo Paese. L’Equador non ha una sua moneta e qui utilizzano il dollaro americano. Il resto però ce lo danno con monete equadoregne. Non hanno esercito, però è pieno di militari.
Il paesaggio appare totalmente diverso. Il verde è di un’intensità mai vista. Ogni metro di terreno è ricoperto da vegetazione. La novità, dopo migliaia di chilometri di incolto o rare coltivazioni, sono le piantagioni. Banane, mango, papaie, avocado, canna da zucchero, riso, mais, frumento, ananas e palme da cocco. Qui c’è tutto ma in quantità e qualità mai vista. I bananeti ricoprono la maggior parte della superficie. Sono di estensione tale che per rendere l’idea si dovrebbe immaginare di percorrere l’autostrada da Venezia a Milano immersi nei banani sui due lati, senza soluzione di continuità e per altrettanta profondità. Le piante sono rigogliose, alte 4/5 metri, densissime e cariche di caschi in maturazione. E quando termina il bananeto, iniziano a vedersi le piante di papaia e mango. E così via, all’infinito. percorriamo centinaia di chilometri e non arriviamo mai.
Alcune aree sono acquitrinose e sui canali sorgono capanne su palafitte. Nell’acqua torbida e coperta da rifiuti di plastica, i bambini giocano, gli adulti si bagnano, le donne lavano il bucato. La strada è buona ma il traffico è impossibile. A differenza degli altri Paesi nei quali il traffico, ancorchè intenso e congestionato, si limitava ai centri urbani, qui non c’è differenza. I camion e le corriere sono una fila continua. I paesi sono uno dopo l’altro e nei centri abitati la congestione è tale che la nostra media scade a livelli bassissimi.
Come già in Perù, qui nessuno sa quanti chilometri manchino a questa o quella destinazione. Le distanze si esprimono in ore, o giorni. E non sbagliano. Nonostante il nostro scetticismo, quando ci dicevano che per arrivare a Quito sarebbero state necessarie 12 ore (550 km), non sbagliavano. Qui i chilometri si dilatano. Il tempo scorre inesorabile e non si arriva mai.
I cartelli stradali riportano solo i nomi dei paesi più prossimi, che non sono segnati in carta e bisogna chiedere più volte.
Ci fermiamo solo per dissetarci e rifornire le moto. A singhiozzo piove. Non ce la sentiamo di indossare la tuta da pioggia. Il caldo è soffocante e preferiamo continuare così.
Comincia l’imbrunire e siamo ancora distanti 200 km. 5 ore, ci dicono. Sorridiamo. Per noi sono 2, al massimo 3.
E piove. La strada peggiora ed iniziano ad esserci buche sulla carreggiata. La luce cala, i fari ancora non illuminano a sufficienza, la pioggia sulla visiera rende difficile la visibilità. Cominciano i problemi. Da più di un’ora si è accodata a noi una moto e percorriamo assieme un centinaio di chilometri. Ad un certo punto la difficoltà di avanzare è tale che preferisco fermarmi ad un distributore. Nini si accosta. Anche lui ha difficoltà a vedere la strada. Il tizio dietro a noi si avvicina. Parliamo. Anche per lui la visibilità è nulla. Ha una Honda stradale 600 cc. É un poliziotto fuori servizio, si chiama Alexander. Lo invitiamo a bere qualcosa.
Riusciamo a telefonare all’hotel che avevo prenotato via internet a Quito, per informare del nostro ritardo. L’amico poliziotto ci dice che la strada per Quito è ancora lunga. Ormai è buio pesto. Ripartiamo. Non si vede nulla. L’asfalto è nero e senza alcun segno di riferimento. Ci sono le buche, i dossi rallentatori sono frequestissimi, alti e quasi invisibili, il traffico bestiale. Sono titubante e Nini mi sorpassa. Quando mi giunge a lato, lo vedo sbandare paurosamente. Non so come, rimane in piedi (il poliziotto ci dirà poi che era finito su un gradino causato da lavori in corso che non avevamo visto).
Il quarto d’ora successivo rimarrà tra i miei ricordi più drammatici. Impossibile fermarsi, la strada non ha bordi, nè linea centrale. Piove e la visiera è diventata inutile, anzi impedisce la visuale e la devo alzare. Gli occhiali si riempiono di goccioline. É fatta, sono praticamente accecato.
Avanzo seguendo le luci davanti a me e con le mani serrate sulle manopole in attesa dei colpi delle buche. Dietro a me il poliziotto, con il suo faro, mi sta abbagliando. Vorrei fermarmi ma non posso. In qualche moto arriviamo al paese di cui ci aveva parlato Alexander. Lui lo conosce bene. Passa davanti e ci fa segno di seguirlo. Dopo un attimo ci troviamo tutti e tre su uno spartitraffico in centro strada!!!
Io non ne posso più, affianco Nini e gli urlo che ci dobbiamo fermare qui, che proseguire in queste condizioni sarebbe suicidio. Nini condivide e a sua volta chiede all’amico che ci trovi una sistemazione per la notte, sul posto.
Tutto si svolge in pochi istanti, approfittando dei rallentamenti del traffico causati dai dissuasori a terra. Ci fermiamo ad un incrocio, a centro strada. Nini posa il piede a terra e………..non trova appoggio. La moto si corica su un lato. Il tempo per fermare la mia e scendere ed il traffico sta sopraggiungendo. Siamo in centro strada e non ci sono luci. In pochi istanti, in tre, riusciamo a raddrizzarla. É andata bene.
Ci facciamo guidare fino al primo hotel e qui ci fermiamo per la notte. Mancano ancora 120 km per Quito. Li faremo domani. Per ora piove ancora………..
Download itinerario del 7 aprile 2010 >> (per visualizzare il tour è necessario Google Earth)