Itinerario del 18 aprile 2010

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18 aprile 2010

Oggi ci siamo dati un po’ di margine di tempo per riprenderci delle fatiche di ieri. Io ho dormito come un sasso, Nini invece ha sofferto per il caldo.

Partiamo che sono già le 11.30. C’è un bel cielo sereno ma già “mucho calor”. Costeggiamo il lago Nicaragua e scegliamo un itinerario che ci faccia evitare Managua. Il passaggio nelle città, da queste parti, non è raccomandato.
Da quanto riusciamo a vedere, il paese si presenta molto più povero dei precedenti da noi visitati. L’agricoltura è assente in gran parte del territorio. Sterpaglie e savana secca contrastano con il verde brillante dei panorami degli ultimi giorni. Le rare piantagioni di banane hanno le piante striminzite e molte sono ammalate, con fogliame secco e cadente. I cocchi sono piccoli e la canna da zucchero molto bassa. Il bestiame è magro e sofferente. Vediamo delle vacche e dei cavalli scheletrici e piagati che ci fanno proprio pena. Sono lungo la strada, legati con una cordicella, sotto al sole cocente e restano immobili con lo sguardo fisso nel vuoto, le costole si possono contare tutte.
Qui i cavalli sono il mezzo di locomozione più diffuso. Si vedono cavalieri ovunque, con il loro lazo e la coperta legata alla sella di cuoio e tela. Per il trasporto di più persone sono utilizzate le corriere, piene dentro ed affollate sul tetto, i furgoni telati, stipati di donne e bambini ed i pick up, “ripieni” di persone e animali. I cassoni aperti dei camion portano un carico misto e alternato (tipo doppio hamburger) di persone e cavalli o vacche. Non voglio pensare che tipo di polpetta potrebbe uscirne in caso di frenate brusche o peggio, di incidente.

Sulla strada i banchetti che vendono frutta hanno poco da esporre. Tuttavia ci fermiamo, dopo un centinaio di kilometri, per ristorarci. Mi assaporo un succo di cocco, suggendolo direttamente dal frutto. La noce è piccolina e rimango subito a secco. Nini si fa tagliare un melone e nel frattempo assaggiamo delle banane. Il melone di Nini non è molto buono e allora procediamo con l’ananasso. Anche questo non è all’altezza di quelli dell’Ecuador, anzi, siamo ad anni luce per gusto, colore, dimensioni e presentazione. Siamo seduti all’ombra, sotto alla tettoia di stuoia e si sta bene. La famiglia che gestisce il chiosco è composta da più generazioni. Sono simpatici e sembrano brava gente. Le bambine giocano con un pappagallino verde. É libero e quando lo desidera se ne va, ma poi ritorna.

Sulla strada si ferma un gruppo di motociclisti locali. Sono di Managua. Hanno visto le nostre moto e le stanno osservando con interesse. Nini si avvia verso di loro ed inizia a conversare. Le domande sono sempre le stesse: – Dove state andando, da dove venite, qual’è la cilindrata, da quanto tempo state viaggiando etc, etc.- Ci scattano anche delle foto. Stanno compiendo un giro domenicale e per un tratto il percorso sarebbe comune. Si offrono quindi di guidarci per indicarci la via. Tra una chiacchiera e l’altra saltiamo sulle moto e partiamo. Una ventina di kilometri assieme e poi si fermano per darci le ultime indicazioni. Poi proseguiamo da soli. Altri 15 kilometri e sto pensando a come mi sento leggero oggi al confronto del patimento di ieri. La schiena poi, non sento nemmeno il peso dello zaino………LO ZAINO!! Dov’è lo zaino! O Madonna mia, ho dimenticato lo zaino sulla sedia del chiosco. Dentro allo zaino ci sono il passaporto, il PC e tutti i dollari in una busta. Fermo la moto all’istante, spiego a Nini il problema e ripartiamo in senso opposto. In un quarto d’ora arriviamo al chiosco. Tutta la famiglia è sulla strada e non appena sentono il rumore delle moto si sbracciano per richiamare la nostra attenzione. Io infatti ero passato davanti senza accorgermene. Mi danno lo zaino e mi informano che avevano anche tentato di rincorrerci con una moto ma non erano riusciti a raggiungerci. Nello zaino c’è tutto. Ma allora non è vero che sono tutti “ladrones”.

Riprendiamo il viaggio. Abbiamo perso un’ora. Dopo un po’ di strada, mentre ci stiamo rifornendo di benzina, si scatena l’uragano. Fulmini si schiantano attorno a noi ed i tuoni esplodono come cannonate. La pioggia scende a “sece roverse”. Partiamo che ancora sta gocciolando ma vista l’esperienza di ieri, senza tuta. In pochi minuti siamo fradici. Percorso un breve tratto esce il sole che in un batter d’occhio ci asciuga. Se avesssimo indossato la tuta da pioggia ora saremmo in imbarazzo, toglierla o tenerla? Proseguiamo fino ad incontrare un paese più grosso degli altri e qui ci fermiamo per la notte. Non ce la siamo sentita di sfidare la sorte nelle prossime dogane all’imbrunire.

A cena ci vogliamo trattare bene, abbiamo notato un avviso che pubblicizza un ristorante “Casa Italia” con precisato “Chef Italiano”. Non ce lo possiamo perdere!! É innegabile, la pasta ci manca. In 50 giorni l’abbiamo mangiata bene a Nazca, nell’Hotel Cantayo di Enzo, in Costa Rica, quando mi sono appropriato della cucina e diretto la Mamy di colore che pretendeva di cuocere la pasta in mezzo bicchiere d’acqua, senza sale, lasciandola bollire per un’oretta, ed infine stasera, nel locale scalcinato di questo salernitano, ex funzionario dell’Unipol che da sette anni risiede in Nicaragua, dove si è improvvisato cuoco. Nell’attesa della pasta ci prepara delle bruschettine cariche di aglio che degustiamo mentre improvvisiamo una sfida a biliardo su un tavolo che deve aver visto tempi migliori.
A fine cena accettiamo l’invito di un tedesco/nicaraguegno, qui residente da 25 anni, che in coppia con il gestore del ristorante desidera sfidarci. Naturalmente ci “lasciamo” battere………


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