28 marzo 2010
Niente da fare. Alle 7 di mattina sono in stazione per informarmi ed eventualmente prenotare il viaggio in treno per domani. La biglietteria è già gremita di gente. Sono tutti rappresentanti di agenzie locali che cercano di accapparrarsi i biglietti.
Mi informo da un’agente. Il costo del biglietto più economico è di 34 dollari per l’andata, 34 dollari per il ritorno, 14 dollari per il bus da Agua Caliente, posta ai piedi di Macchu Picchu, fino alla cittadella, 40 dollari per accedere al sito. Partenza alle 6 di mattina e rientro alle 19.30. Sarebbe consigliabile però partire alla sera e pernottare in zona.
Prezzo esoso ma tant’è, ci si va una volta nella vita. E invece non è proprio così. Vengo a sapere che il treno ci sarebbe domani ma il sito di Macchu Picchu verrà aperto solamente il primo di aprile. Bello scherzo no? Si tratterebbe di rimanere in zona per cinque giorni. Purtroppo il nostro programma di viaggio è un po’ tiranno, soprattutto con Nini.
Stanotte c’è stata una festa di matrimonio, qui in hotel o nei locali adiacenti, ed hanno suonato e cantato fino alle 4 di stamattina. La faccia di Nini, che trovo al rientro dalla stazione, è molto eloquente. Non ha chiuso occhio per tutta la notte. Lo invito pertanto a riposare fino a mezzogiorno e mi informo su ipotesi alternative per visitare qualche sito archeologico.
Combiniamo, con l’assistenza del portiere dell’hotel ed alle 13 partiamo con un taxi per compiere un tour che ci porta a visitare la cittadella di Chinchero, dove la domenica si svolge un mercato molto vivace e colorito, che raduna tutti i campesinos della zona.
Vediamo qualche rovina di scarsa importanza ed un villaggio spagnoleggiante fondato su antiche basi inca. Interessanti le manifestazioni in corso con tutti i partecipanti in costume tradizionale.
Proseguiamo per strade sterrate fino a raggiungere Moray, un sito molto particolare, costituito da opere di origine Inca, a forma di anfiteatro terrazzato, il cui uso si presuppone fosse quello di studiare e migliorare le coltivazioni di mais dell’epoca. A me dà vagamente la sensazione di avere qualche significato rituale.
Infine visitiamo Ollantaytambo, antico insediamento Inca, di cui mantiene le caratteristiche urbanistiche. Costruito sopra a due montagne al termine di una valle, aveva scopi di difesa con insediamenti militari, di culto ed agricoli. Le terrazze, cui si riesce facilmente ad accedere, sono in ottimo stato di conservazione. L’arrampicata che mi consentono di fare, rimette in moto le mie gambe dopo un mese di sella……….
Rientriamo a Cuzco a notte e sotto una pioggia battente ma…………siamo in auto, per fortuna. Spero che il temporale si sfoghi e che domani ritorni il sereno.
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27 marzo 2010
Oggi giornata di trasferimento. Attraversiamo la campagna peruviana in una giornata prefestiva e c’è molto movimento.
Facciamo lo slalom tra i temporali che incupiscono il cielo e scaricano cateratte d’acqua, passando ancora una volta indenni.
Rimaniamo impressionati dalla grande quantità di toni di verde di questa campagna e di queste montagne. Dal verde brillante fino al verde marcio, le tonalità ci sono tutte.
I bambini ci salutano e noi rispondiamo sollevando la mano.
La strada è discreta e ci porta fino a quota 4338 mslm. Le moto borbottano ma non ci abbandonano.
Sui monti prospicienti le valli che stiamo percorrendo si notano i segni degli antichi terrazzamenti, parte dei quali ancora oggi coltivati. Quanta differenza con gli usi e costumi della Bolivia dove la gente mi ha dato l’impressione di subire i ritmi del tempo senza nulla tentare per modificare o migliorare la propria esistenza.
Qui, in Perù, si vede la mano dell’uomo che interagisce con il territorio. Attorno al lago Titicaca è tutto un fervore di attività e le colture sono intensive, come pure l’allevamento.
Scendendo verso Cuzco anche i villaggi e le abitazioni denotano un progresso importante. L’architettura elementare delle capanne di argilla secca e tetto di paglia, lascia il posto a casette più curate, molte delle quali con intonaco, colore e copertura in lamiera e poi, scendendo ancora di quota, ecco i primi tetti a due falde con coppi in cotto. Le case sono più grandi e molte hanno due piani.
Nelle botteghe lungo la strada, dove ci fermiamo di tanto in tanto per un caffè (che non si trova) o una bibita, vediamo sacchi di foglie di coca in vendita. L’uso della foglia è consentito e c’è tanto di tariffa ufficiale e licenza esposta. Io e Nini, per ora non ne siamo tentati.
Arriviamo a Cuzco di sera. Ci informiamo per la visita a Macchu Picchu. Il sito è ancora chiuso ma sembra che possa essere riaperto già lunedi.
Domattina alle 7 andrò in stazione per prenotare un biglietto.
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26 marzo 2010
Lasciamo la Bolivia per entrare in Perù la mattina presto. Fa ancora freddo ma dall’albergo al confine sono solo 8 chilometri.
Le formalità doganali si chiudono rapidamente. Notiamo subito la differenza, in positivo, dell’approccio dei funzionari.
Cambiamo un po’ di euro ed iniziamo il viaggio.
Costeggiamo il Titicaca per un paio d’ore. La gente ci saluta, cosa che non accadeva più da quando avevamo lasciato l’Argentina.
La differenza tra Bolivia e Perù risulta subito evidente. Le case sono più numerose, molte hanno i muri intonacati ed alcune sono colorate. I tetti sono quasi tutti in lamiera zincata, ancora bella lucida.
La campagna che fiancheggia la strada è intensamente coltivata ed i contadini sono all’opera ovunque per falciare il raccolto e sistemarlo in covoni. Il grano è maturo e così pure l’orzo, l’avena, il riso.
Sul lago si notano molte gabbie per l’allevamento del pesce e molte barche di pescatori. Ovunque pecore, maiali e vacche.
Sembra un altro mondo. Stessa area, stessa altitudine, stesso terreno, ma sembra proprio che qui le cose stiano procedendo con una marcia in più.
I colori, in questa atmosfera cristallina, sono vividi e verrebbe voglia di prendere una tavolozza per tentare di imitarli. Raramente ho goduto di tanta armonia di luci e colori.
Al primo paesi ci fermiamo per lavare le moto ancora impolverate dall’ultimo “ripio”. Le strade del pueblo sono invase dai tuk tuk che sembrano essere l’unico mezzo di trasporto. Sono numerosissimi e coloratissimi. Delle forme più strane, a due o più posti. Chiusi o aperti. A pedali o a motore. Sono uno spettacolo da vedere. Mi apposto e ne fotografo a decine.
Arriviamo a Puno, sul lago. Sistemati noi e le moto, scendiamo al porto e contrattiamo una gita alla più vicina delle isole flottanti, Uros. Una lancia ci trasporta rapidamente tra i canali, fino all’arcipelago di isole galleggianti, ancora attualmente abitate da migliaia di persone. Una guida ci spiega la tecnica di creazione di un’isola e come la si mantiene viva ed attiva. Sembra impossibile che della gente abbia scelto di vivere così e tuttora ci abiti. Ci spiegano che hanno tutto ciò che gli serve ed hanno la libertà.
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Informazioni
Il Lago Titicaca misura 204 km di lunghezza per 65 di larghezza massima, ed occupa una area di 8.562 km², dei quali 4.772 km² sono in Perù e 3.790 km² in Bolivia. La massima profondità del lago è di -281 m. È situato ad una altitudine di 3812 metri sopra il livello del mare, ed è il lago navigabile più alto del mondo. L’acqua è cosi’ trasparente da consentire la visibilità fino a profondità di 65 metri (non ho verificato).
Una particolarità del lago è l’esistenza di isole artificiali galleggianti, costruite con l’uso di canne di Totora, abitate da molte popolazioni pre-incaiche, di diversa etnia. Noi abbiamo visitato l’isola di Uros. Le isole sono ancorate sul fondo del lago e possono essere spostate a piacimento.
Dal lago gli abitanti traggono ogni sostentamento e vivono in autosufficienza e con estrema ma dignitosa semplicità.
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25 marzo 2010
Ancora una volta sono le carte che ci fermano. Alle 10 di questa mattina eravamo pronti a partire. Chiedo in albergo indicazioni per reperire una compagnia di assicurazioni, convinto di poter espletare le pratiche per la polizza di copertura RCT per il Perù in pochi minuti.
La compagnia che ho individuato è la stessa con la quale ho stipulato la polizza in Argentina e si trova a poca distanza. Un inserviente dell’hotel mi accompagna ma, sorpresa (?), la burocrazia ha i suoi tempi. Ritorni alle 4 della “tarde”, mi dicono! A nulla valgono le preghiere e le insistenze.
Nini è già pronto dalle 7 di questa mattina, io ho scritto ed operato sul PC fino alle 9 ma poi mi son vestito di tutto punto, con protezioni e stivali. Comincia a fare caldo.
La mia “passeggiata”, in cerca della Compagnia di Assicurazioni, mi ha fatto percorrere le strade del centro cittadino, intasate da mercati e gente che brulica in un misto caotico di modernità e tradizione.
Ricchezza e povertà. Cravatte e costumi contadini. Negozi di alta moda e bancharelle che vendono 4 pannocchiette spelacchiate e moltissimi lustrascarpe. Sovrana, su tutto ciò, la capillare diffusione di centri internet. Ad ogni piè sospinto c’è una porta o una vetrina che espone PC e consente il collegamento alla rete. Anche il cellulare la fa da padrone. A parte i numerosissimi negozi che li vendono, la cosa più anacronistica mi è sembrata la vista di donne in costume tradizionale, bombetta, trecce e gerla di lana sulla schiena e cellulare all’orecchio.
La Paz di giorno è ancora più impressionante che di notte. Quando alla fine, ormai alle 17, riusciamo ad accendere le moto e scendiamo in strada, ci sembra di scendere nell’arena. Un traffico scatenato ci avviluppa tra le sue spire e ci trascina nella corrente senza possibilità di scegliere la direzione. La situazione mi fa tornare alla mente l’antico gioco dello shangai. Noi siamo due tra quei mille bastoncini.
Non so come ma il flusso ci trascina nella giusta direzione e finalmente imbocchiamo l’avenida principal nella direzione corretta.
Cominciamo a risalire il fianco della caldera in senso inverso a ieri sera. Man mano che si guadagna quota, lo sguardo spazia sullo strano presepio che riveste ogni spazio disponibile. Chissà come faranno a raggiungere le loro case, abbarbicate una sopra l’altra, dal fondo valle fino alla cresta dei monti.
Appena fuori dal “cratere” o “valle” che ospita La Paz, ci si trova a El Alto, città satellite, se possibile più caotica e trafficata della stessa capitale. É la patria delle furgonette Nissan ed altre giapponesi. Sono come formiche e formano un fiume ininterrotto. Sono il trasporto pubblico per eccellenza.
Dopo più di un’ora riusciamo a scrollarci di dosso il traffico che ci ha intossicato con i fumi di scarico, assordato con il suono dei clacson, affaticato per la tensione.
Ci lanciamo verso il lago Titicaca. Le moto stentano a prendere velocità. Poverette, se pensiamo a quanto sono cariche, ai 12000 chilometri percorsi, dei quli circa 2500 su piste e sterratoni, alla quota in cui ci troviamo, alla benzina da 75 ottani ed alla polvere che ancora intasa i loro filtri, si capisce quanto siano brave.
Ormai è sera. L’aria è limpida e frizzante. Sulla nostra destra si staglia contro il cielo blu la Cordillera Oriental, carica di neve. Ecco perchè fa così freddo. I picchi raggiungono i 6500 metri di altezza e sono a 10 o 20 chilometri dalla città.
Davanti a noi un cumulonembo si sta scaricando. Anche questa volta ci va bene ed il vento ci trasporta solamente qualche scroscio d’acqua ed una sottile grandinata.
In vista del lago Titicaca, il più alto lago del mondo, le cui dimensioni sono quelle di un mare, ci fermiamo sulle alture per cogliere il panorama impreziosito dalle ultime luci del giorno che ne fanno risaltare la bellezza. Ci attende un traghetto per attraversare uno stretto braccio d’acqua. É una barcaccia sgangherata con un impiancito in assi dissestate e mobili, sulle quali saliamo con molta titubanza.
Una volta a bordo la moto rimane in un equilibrio instabile e la dobbiamo mantenere puntellata per evitare che si ribalti con il movimento della barca. Nini, che è rimasto a cavallo della KTM, a poppavia del battello, mi informa che la struttura del “barco” si contorce visibilmente all’impatto con le ondine provocate da altri natanti che incrociamo.
Lo scarico delle moto avviene con difficoltà, con l’aiuto dei traghettatori, ma senza conseguenze. Tutto bene pertanto, un’altra esperienza da raccontare agli amici.
Arriviamo a destinazione col buio ed intirizziti, com’è ormai diventata abitudine. Siamo sul mitico Titicaca, culla di antiche civiltà e ricco si storia.
Per cena ricorriamo ad un piatto di tradizionali spaghetti, scotti al dente. Si sa che la quota rende impossibile la cottura della pasta in quanto l’acqua bolle a temperatura più bassa. Io li assaporo comunque. Nini proprio non ce la fa e tenta con del riso in bianco che lascia nel piatto dopo due forchettate. Forse non sta bene?
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Annotazioni di viaggio
Alla periferia di La Paz (il cui nome corretto non è, a mio avviso, La Pace ma La Pazza) e qui, sul Titicaca, ho visto i primi ed unici, spelacchiati esemplari arborei (eucalipti di montagna) made in Bolivia.
Notizie accessorie
Errata Corrige. Nel testo ho impropriamente definito La Paz quale capitale della Bolivia. In realtà ne è solo la sede governativa, mentre la capitale indicata nella Costituzione boliviana è Sucre.
Nel 2001 aveva una popolazione di 800.000 abitanti. Non ci sono dati piu’ recenti. Si trova ad un’altitudine media di circa 3.600 metri sul livello del mare. Assieme alla città satellite di El Alto, posta sulle alture prospicenti, a circa 4.000 metri sul livello del mare, che conta circa 700.000 abitanti, La Paz costituisce il nucleo abitativo più popolato della Bolivia.
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24 marzo 2010
Bolivia. Tre giorni di Bolivia sono troppo pochi per poter esprimere un giudizio sul paese e tanto meno sulla gente. Posso solamente riferire quanto ho visto e sperimentato personalmente.
Ieri, come il giorno precedente, ho notato l’onnipresenza dell’esercito. I militari in divisa sono una costante. Caserme e presidi se ne vedono ovunque. É la casta più ricca e potente. Tra il disordine e la sporcizia, le buche e la povertà assoluta, sfilano colonne di militari in divisa con banda e gonfaloni.
Stamattina già dalle sei si udivano inni provenire dalla vicina caserma. Ieri sera, alla garritta, i 3 militari di guardia erano però avvolti in semplici coperte di lana, con in testa il tipico berretto andino fatto dalla mamma. Mi facevano pena, poveri ragazzi. Si vedono spesso anche dei cortei di dimostranti che per una o per un’altra ragione, sempre più sovente scendono in piazza.
La gente è povera, le donne nei loro costumi tipici dai colori slavati e l’immancabile bombetta sono sempre cariche di qualcosa, i bimbi giocano a terra, tra la polvere. Moltissimi soggetti sono affetti da problemi fisici e deformità. Ritengo che la causa sia la consanguineità, dovuta al forzato isolamento.
Poche sono le persone con le quali si riesce a capirsi, pur parlando la loro lingua. La stessa impressione mi è stata riportata da altri viaggiatori. Però, anche nei pueblos più sperduti e più poveri non manca mai il messaggio elettorale. Dai muri sbrecciati, sui quali mai è stato applicato un intonaco nè data una tinta, il grande faccione del candidato alcalde (sindaco) o gobernador, spicca con un sorriso beffardo.
Stamane l’opzione di viaggio prevedeva un itinerario verso Potosi, da farsi in 6 ore tra le montagne fino a 4200 metri di altezza, con panorami incantati ma curve e salite e ghiaia e buche, oppure un percorso in pianura ma con presenza di zone sabbiose, molto insidiose. Abbiamo scelto questa seconda opzione per accelerare l’avvicinamento a La Paz.
Credo sia stata l’esperienza più drammatica di tutto il viaggio. Il primo tratto, di cento chilometri circa, tutta una tole ondulee che faceva vibrare la moto e noi stessi al punto da farci perdere la vista del terreno.
La seconda parte, sempre tole ondulee, ma ricoperta da uno strato di “borotalco” finissimo che ci faceva continuamente perdere il controllo del mezzo.
Va notato che non montiamo più copertoni con i tappi, bensì gomme da misto, poco adatte aquesto tipo di terreno. Ben 3 volte la moto si è intraversata e l’ho tenuta in piedi miracolosamente e non conto le volte che mi son salvato sostenendomi a colpi di gamba.
Quando, dopo 4 ore, abbiamo ritrovato l’asfalto, siamo rinati. Mancavano a quel punto 350 km per La Paz. Il distributore non aveva benzina e c’era una colonna di 100 auto in attesa di un’improbabile cisterna in arrivo. Abbiamo deciso di proseguire. Siamo arrivati a pelo, dopo un’altra ora, ad una cittadina con distributore. Attorno a noi numerosi temporali con un cielo nerissimo ma la nostra direzione ci portava sempre al loro limite. In un solo caso, per 5 minuti, abbiamo corso sotto la pioggia scrosciante.
Iniziava il tramonto, ed eravamo ancora a 80 km dalla capitale. Qui appena scende il sole inizia a fare freddo. Nini mi fa cenno di volersi fermare. Scendiamo dalle moto. Mi si avvicina e vedo che trema tutto, in uno stato quasi convulsivo. Ha atteso troppo, avrebbe dovuto fermarsi prima. Si spoglia per indossare, sotto alla tuta, tutto quello che trova a portata di mano. Abbiamo con noi una boccetta di liquore e tiriamo due bei sorsi. Dicono che in altitudine faccia male bere alcolici ma noi il beneficio lo abbiamo sentito subito.
La notte è nera, il traffico, avvicinandosi alla capitale, diventa intenso. Soprattutto camion. A differenza dell’Argentina, qui non esiste la cortesia e nessuno ci agevola il sorpasso, costringendoci a volte ad annusare lo scarico puzzolente di scarichi scarburati per molti chilometri.
Fa freddo, la strada è deformata. Non vediamo l’ora di arrivare. Già da 50 km di distanza, da un’altura, scorgiamo una linea lunghissima di luci all’orizzonte. É la città di La Paz.
Ci vuole ancora un’ora per giungere alle prime luci della periferia e poi un’altra ora per arrivare nel centro della città. Città? No, nel centro della bolgia più assoluta ed assurda del girone boliviano.
Ci accoglie un traffico indescrivibile. Un groviglio inestricabile di auto e minibus che avanzano a singhiozzo e si sorpassano senza regola alcuna. Scendiamo lungo una larga strada a doppia corsia (a pedaggio) che con larghe spire scende nel calderone della città. Dal basso si vedono le pareti della “caldera” illuminate dalle luci delle case abbarbicate sulla montagna.
Il centro è ancora più caotico ma assume l’aspetto tipico delle città moderne, con luci, negozi, semafori, insegne pubblicitarie. Trovare l’hotel è un’impresa ma finalmente, alle 9 e mezza, ci arriviamo. Domattina scapperemo di corsa. Le moto stanotte sono dietro a solide sbarre di ferro e guardate a vista da una guardia armata.
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Annotazioni di viaggio
Sugli altopiani gli spazi che si aprono davanti a noi sono enormi e benchè posti ad altezze vertiginose (siamo costantemente tra i 3700 e i 4000 metri), non sono deserti.
Vivere quassù dev’essere veramente difficile. Eppure lungo ogni strada, ai bordi di ogni pista, magari ad intervalli di mezz’ora, scorgiamo sempre qualche segno di presenza umana. Anche se apparentemente non c’è acqua, sicuramente non c’è benzina, nè legna, non c’è nulla di coltivato, salvo rare eccezioni, ed il clima è molto duro, qualche anima viva la si incontra sempre.
Il pastorello con i suoi lama, la vecchietta con la gerla o qualche operaio in tuta gialla che tenta inutilmente la manutenzione della “statale”.
La gente abita questo territorio con caparbietà, vivendo in piccole costruzioni di un piano e, temo, anche di un solo locale. Sono nella totalità assoluta dei tuguri costruiti in mattoni di argilla essicata al sole, di pochi metri quadrati, tutte uguali tra loro, invariabilmente con il tetto in paglia. Un muro dello stesso materiale ne unisce generalmente 2 o 3, a formare un cortile dove racchiudono le greggi.
Molte sono abbandonate e ne rimangono solo i muri. I tetti crollano, sotto il peso della neve e, mancando gli alberi, non c’è legname per ricostruirli.
Anche i piccoli pueblos che attraversiamo sono impressionantemente poveri. La strada principale è simile ad un campo di motocross, con avvallamenti di mezzo metro e orme di ruote bordate da creste di fango essiccato alte decine di centimetri. E poi strati di polvere che il vento trascina in alto in cortine rotanti.
L’aria rarefatta e pulita consente una visibilità inusuale per noi e tutto sembra lì, a portata di mano, anche se sulla mappa si capisce che la distanza dal punto osservato è invece enorme.
Gli altopiani sono ricoperti da erba di un verde cangiante ed aree brune od ocra. Con la luce del sole, tra l’ombra delle nubi, l’effetto è sorprendente. Mi verrebbe da fermarmi in continuazione per scattare delle foto. In lontananza, una corolla di montagne brulle incornicia in pianoro.
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