Uyuni



Itinerario del 24 marzo 2010

Itinerario del 24 marzo 2010

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24 marzo 2010

Bolivia. Tre giorni di Bolivia sono troppo pochi per poter esprimere un giudizio sul paese e tanto meno sulla gente. Posso solamente riferire quanto ho visto e sperimentato personalmente.

Ieri, come il giorno precedente, ho notato l’onnipresenza dell’esercito. I militari in divisa sono una costante. Caserme e presidi se ne vedono ovunque. É la casta più ricca e potente. Tra il disordine e la sporcizia, le buche e la povertà assoluta, sfilano colonne di militari in divisa con banda e gonfaloni.
Stamattina già dalle sei si udivano inni provenire dalla vicina caserma. Ieri sera, alla garritta, i 3 militari di guardia erano però avvolti in semplici coperte di lana, con in testa il tipico berretto andino fatto dalla mamma. Mi facevano pena, poveri ragazzi. Si vedono spesso anche dei cortei di dimostranti che per una o per un’altra ragione, sempre più sovente scendono in piazza.

La gente è povera, le donne nei loro costumi tipici dai colori slavati e l’immancabile bombetta sono sempre cariche di qualcosa, i bimbi giocano a terra, tra la polvere. Moltissimi soggetti sono affetti da problemi fisici e deformità. Ritengo che la causa sia la consanguineità, dovuta al forzato isolamento.

Poche sono le persone con le quali si riesce a capirsi, pur parlando la loro lingua. La stessa impressione mi è stata riportata da altri viaggiatori. Però, anche nei pueblos più sperduti e più poveri non manca mai il messaggio elettorale. Dai muri sbrecciati, sui quali mai è stato applicato un intonaco nè data una tinta, il grande faccione del candidato alcalde (sindaco) o gobernador, spicca con un sorriso beffardo.

Stamane l’opzione di viaggio prevedeva un itinerario verso Potosi, da farsi in 6 ore tra le montagne fino a 4200 metri di altezza, con panorami incantati ma curve e salite e ghiaia e buche, oppure un percorso in pianura ma con presenza di zone sabbiose, molto insidiose. Abbiamo scelto questa seconda opzione per accelerare l’avvicinamento a La Paz.
Credo sia stata l’esperienza più drammatica di tutto il viaggio. Il primo tratto, di cento chilometri circa, tutta una tole ondulee che faceva vibrare la moto e noi stessi al punto da farci perdere la vista del terreno.
La seconda parte, sempre tole ondulee, ma ricoperta da uno strato di “borotalco” finissimo che ci faceva continuamente perdere il controllo del mezzo.
Va notato che non montiamo più copertoni con i tappi, bensì gomme da misto, poco adatte aquesto tipo di terreno. Ben 3 volte la moto si è intraversata e l’ho tenuta in piedi miracolosamente e non conto le volte che mi son salvato sostenendomi a colpi di gamba.

Quando, dopo 4 ore, abbiamo ritrovato l’asfalto, siamo rinati. Mancavano a quel punto 350 km per La Paz. Il distributore non aveva benzina e c’era una colonna di 100 auto in attesa di un’improbabile cisterna in arrivo. Abbiamo deciso di proseguire. Siamo arrivati a pelo, dopo un’altra ora, ad una cittadina con distributore. Attorno a noi numerosi temporali con un cielo nerissimo ma la nostra direzione ci portava sempre al loro limite. In un solo caso, per 5 minuti, abbiamo corso sotto la pioggia scrosciante.

Iniziava il tramonto, ed eravamo ancora a 80 km dalla capitale. Qui appena scende il sole inizia a fare freddo. Nini mi fa cenno di volersi fermare. Scendiamo dalle moto. Mi si avvicina e vedo che trema tutto, in uno stato quasi convulsivo. Ha atteso troppo, avrebbe dovuto fermarsi prima. Si spoglia per indossare, sotto alla tuta, tutto quello che trova a portata di mano. Abbiamo con noi una boccetta di liquore e tiriamo due bei sorsi. Dicono che in altitudine faccia male bere alcolici ma noi il beneficio lo abbiamo sentito subito.

La notte è nera, il traffico, avvicinandosi alla capitale, diventa intenso. Soprattutto camion. A differenza dell’Argentina, qui non esiste la cortesia e nessuno ci agevola il sorpasso, costringendoci a volte ad annusare lo scarico puzzolente di scarichi scarburati per molti chilometri.

Fa freddo, la strada è deformata. Non vediamo l’ora di arrivare. Già da 50 km di distanza, da un’altura, scorgiamo una linea lunghissima di luci all’orizzonte. É la città di La Paz.

Ci vuole ancora un’ora per giungere alle prime luci della periferia e poi un’altra ora per arrivare nel centro della città. Città? No, nel centro della bolgia più assoluta ed assurda del girone boliviano.
Ci accoglie un traffico indescrivibile. Un groviglio inestricabile di auto e minibus che avanzano a singhiozzo e si sorpassano senza regola alcuna. Scendiamo lungo una larga strada a doppia corsia (a pedaggio) che con larghe spire scende nel calderone della città. Dal basso si vedono le pareti della “caldera” illuminate dalle luci delle case abbarbicate sulla montagna.

Il centro è ancora più caotico ma assume l’aspetto tipico delle città moderne, con luci, negozi, semafori, insegne pubblicitarie. Trovare l’hotel è un’impresa ma finalmente, alle 9 e mezza, ci arriviamo. Domattina scapperemo di corsa. Le moto stanotte sono dietro a solide sbarre di ferro e guardate a vista da una guardia armata.

Annotazioni di viaggio

Sugli altopiani gli spazi che si aprono davanti a noi sono enormi e benchè posti ad altezze vertiginose (siamo costantemente tra i 3700 e i 4000 metri), non sono deserti.

Vivere quassù dev’essere veramente difficile. Eppure lungo ogni strada, ai bordi di ogni pista, magari ad intervalli di mezz’ora, scorgiamo sempre qualche segno di presenza umana. Anche se apparentemente non c’è acqua, sicuramente non c’è benzina, nè legna, non c’è nulla di coltivato, salvo rare eccezioni, ed il clima è molto duro, qualche anima viva la si incontra sempre.
Il pastorello con i suoi lama, la vecchietta con la gerla o qualche operaio in tuta gialla che tenta inutilmente la manutenzione della “statale”.

La gente abita questo territorio con caparbietà, vivendo in piccole costruzioni di un piano e, temo, anche di un solo locale. Sono nella totalità assoluta dei tuguri costruiti in mattoni di argilla essicata al sole, di pochi metri quadrati, tutte uguali tra loro, invariabilmente con il tetto in paglia. Un muro dello stesso materiale ne unisce generalmente 2 o 3, a formare un cortile dove racchiudono le greggi.
Molte sono abbandonate e ne rimangono solo i muri. I tetti crollano, sotto il peso della neve e, mancando gli alberi, non c’è legname per ricostruirli.

Anche i piccoli pueblos che attraversiamo sono impressionantemente poveri. La strada principale è simile ad un campo di motocross, con avvallamenti di mezzo metro e orme di ruote bordate da creste di fango essiccato alte decine di centimetri. E poi strati di polvere che il vento trascina in alto in cortine rotanti.

L’aria rarefatta e pulita consente una visibilità inusuale per noi e tutto sembra lì, a portata di mano, anche se sulla mappa si capisce che la distanza dal punto osservato è invece enorme.

Gli altopiani sono ricoperti da erba di un verde cangiante ed aree brune od ocra. Con la luce del sole, tra l’ombra delle nubi, l’effetto è sorprendente. Mi verrebbe da fermarmi in continuazione per scattare delle foto. In lontananza, una corolla di montagne brulle incornicia in pianoro.


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